Una lettera scritta dopo molta riflessione


Cari amici, vi scrivo questa lettera per affrontare con voi un tema delicato, sul quale mi sono finora trattenuto dal coinvolgervi al di là dello stretto necessario.

Mi riferisco al tema dell’accoglienza dei profughi e comunque delle persone in difficoltà, anche italiane, che bussano alla porta delle nostre parrocchie. Come sapete, tenendo la porta aperta, in questi anni sono entrate tante persone, sia per chiedere aiuto per mangiare e vestirsi, sia per chiedere un posto per dormire.
Finora, questa accoglienza è stata gestita da me e da don Davide, dai volontari del Centro d’Ascolto, dalle famiglie che curano la Mensa domenicale e da coloro che curano la distribuzione degli alimenti e dei vestiti.
Penso però che siamo sollecitati a un coinvolgimento più generale, di tutta la comunità dell’Unità Pastorale. Dico questo, perché ormai le richieste sono diventate così numerose e così impegnative da oltrepassare le possibilità dell’attuale organizzazione.
Si può obiettare che la Chiesa non deve diventare un’organizzazione assistenziale. Questo è vero e lo ha detto anche il Papa.
Ma lo stesso Papa Francesco ha anche detto, mentre si recava la settimana scorsa a Lesbo per incontrare i profughi: “Noi andiamo ad incontrare la catastrofe umanitaria più grande dopo la Seconda Guerra Mondiale”.
Dobbiamo prenderne coscienza. Purtroppo, questa tragedia non ci tocca nella carne, noi ne vediamo solo alcuni aspetti. Si tratta certamente di una realtà estremamente complessa. Il Papa lo ha detto chiaramente. Non esistono soluzioni facili.
Ma, per noi, penso che sia necessario prima di tutto entrare in contatto con le persone, conoscerle, restituire loro la dignità: essi non sono né dei numeri né dei problemi, sono esseri umani, che Dio ama come ama ciascuno di noi e con i quali Egli si identifica: “Avevo fame, mi avete dato da mangiare; ero straniero e mi avete ospitato”.
Dunque, non si tratta più soltanto di fare un’elemosina, ma veniamo richiesti –e lo dico con tremore- di cambiare il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, di lasciarci “disturbare”. Il Papa ce lo dice ormai chiaramente, come quando ha esortato ogni parrocchia ad accogliere una famiglia di profughi, dando ora l’esempio, prendendo nelle due parrocchie della Città del Vaticano dodici profughi.
La nostra Caritas sta ospitando famiglie siriane che provengono dai campi del Libano. I segni si stanno moltiplicando. Anche la colletta per l’Ucraina, che Francesco ha indetto in tutte le chiese per domenica 24 aprile, è un ennesimo segno.
Ma è appunto un segno, un segno che ci interroga: che dobbiamo fare noi, la nostra famiglia, la nostra comunità?
L’accoglienza sta diventando sempre più necessaria. Questo vale sia per le persone migranti, sia per quelle che vivono tra noi da tempo, italiane e straniere. Molte non riescono a pagare l’affitto, altri non hanno proprio dove dormire. Ci sono a Reggio ormai dei luoghi, che non si possono neppure definire ghetti: sono peggio, sono tane, ricoveri che neppure le bestie accetterebbero: valga l’esempio delle ex Reggiane. Ci sono poi i profughi che arrivano coi barconi e che vengono distribuiti nelle varie province. Reggio ne sta ospitando 750. Alla fine del processo di verifica delle loro condizioni, il 10% vedrà riconosciuto lo status di perseguitato, il 10% verrà espulso e l’80% riceverà un permesso di soggiorno “per motivi umanitari”, che consentirà loro di cercarsi un lavoro. Però, a quel punto, cesserà l’accoglienza finanziata dall’Italia e dall’Europa, e essi dovranno uscire dall’attuale residenza e cercarsi un altro posto dove risiedere e un lavoro. Molti andranno altrove, in altri Stati o presso conoscenti. Molti andranno nel sud dell’Italia a raccogliere pomodori in nero a 5 Euro al giorno. Alcuni rimarranno a Reggio, non si sa bene a far che cosa, anche perché si tratta nella maggioranza di persone che non conoscono la lingua e non hanno competenze spendibili tra noi.
Per questo, ho deciso di interpellarvi per consegnare anche a voi la domanda: che cosa ci sta chiedendo il Signore? Vi ho detto altre volte che non intendo minimamente dire io a voi che cosa dovete fare.
Ma penso sia mio dovere porvi la domanda. Che lo Spirito Santo vi ispiri!
Vi do alcune indicazioni sulle cose più necessarie. Anzitutto, l’ospitalità per dormire. Questo può essere fatto nelle nostre case, per persone singole, già conosciute e capaci di inserirsi nella nostra quotidianità. Oppure, potremmo affittare un appartamento, con la condizione però che ci siano turni di persone che lo gestiscono. Poi, assolutamente primari, la scuola di italiano per gli adulti (presso il CeIS) e il doposcuola per i bambini (al Buon Pastore). Qui sono necessari insegnanti volontari, ma anche un finanziamento per alcune ore di professionisti dedicati.
Poi, è necessario conoscere le tradizioni sociali e religiose di queste persone. Molti di loro sono cristiani. Ma molto raramente riusciamo a coinvolgerli. In effetti, non è sufficiente dire loro: “La porta è aperta”, se poi nessuno li saluta o mostra interesse. Dovremmo esprimere concretamente il desiderio di conoscere le loro storie e il loro mondo: questa è la prima carità, perché restituisce loro la dignità. Infine, bisogna pensare, ragionare, incontrare. Prego il Consiglio Pastorale e i gruppi di riflessione sulla Carità e sulle Chiese sorelle di fare proposte e di coinvolgere l’insieme delle persone dell’Unità Pastorale.
Non abbiamo paura di intraprendere questa via, alla quale ci invita il Signore, anche attraverso il nostro Papa e il nostro Vescovo. La mia esperienza mi dice che quello che riceveremo sarà davvero tanto, molto di più di quel che avremo dato.

Con affetto, vostro don Giuseppe

Reggio Emilia, 24 aprile 2016


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