176^ lettera alla comunità al tempo della conversione
Questa domenica conclude l’anno della Chiesa. L’ultima parola è il “Giudizio Universale”. Michelangelo ha invertito la collocazione tradizionale, cosicchè chi entra nella Cappella Sistina se lo trova di fronte. La consuetudine delle chiese occidentali era invece di rappresentarlo nella parete di fondo, sopra la porta d’uscita, quasi un ammonimento a “rigare diritto”, quando si rientra nella vita di tutti i giorni. Le motivazioni per questa severa parola c’erano in abbondanza, nel Cinquecento, ma pare non manchino anche oggi. La severità del giudizio non è però tutto quello che il Vangelo ha da dire, anche se constatiamo che chi si sottrae al giudizio, chi pensa di essere padrone della vita propria e altrui, facilmente diventa pericoloso e, eventualmente, anche omicida.
Alcuni filosofi, come Kant, hanno messo in evidenza che un giudizio c’è già, quello della propria coscienza, che non può essere soffocato per sempre. Caino non può sottrarsi al grido del sangue di Abele. Tuttavia, la narrazione evangelica di Matteo (cap. 25,31-48)suggerisce qualcosa di diverso.
Anzitutto, non si è giudicati sull’osservanza dei comandamenti, ma sul bene fatto o negato ai “fratelli del re”, così li chiama Gesù (“i miei fratelli”). Di loro non si dice che siano buoni o cattivi; si dice che sono poveri, che hanno fame, che sono stranieri, malati o carcerati. C’è un rapporto affettivo tra Gesù e coloro che piangono, che sono calpestati, che sono privati dei loro diritti, come vien detto nelle Beatitudini. Il cuore di Dio batte per loro: “Dio non dimentica il grido dei poveri” (Sal 9,13). Questa tenerezza di Dio trabocca verso chi si prende cura: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(Prov 19,17). Nello scambio tra i poveri e la Chiesa, è sempre essa a trarne maggior vantaggio. Questo vale anche per la società civile e i suoi governanti.
Ci si lamenta spesso perché i poveri rimangono fuori dalla chiesa, magari sui gradini a chiedere l’elemosina. Quando si parla di “evangelizzazione”, tra i destinatari i poveri sono tra i primi. Io penso, invece, che Gesù provveda lui, dal momento che attribuisce a sé le parole del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore … mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio”(Lc 4,18). Gesù ha un rapporto privato, personale e diretto con chi è in condizioni di povertà. Penso a chi è malato e al dialogo intimo tra chi porta la croce della sofferenza e il Crocifisso. Per questo, non vorrei togliere la sua immagine dalle stanze dell’ospedale. Perché si dovrebbe? Con quale vantaggio? Chi ha paura di un simbolo che trasforma il dolore in amore?
Anche la comunità civile trae vantaggio da un rapporto desiderato e intenso con le povertà. Il primo beneficio è che si impara a dire la verità. Il povero non si lascia ingannare, almeno per lungo tempo. Ascoltarli, in questa era, nella quale la manipolazione e la propaganda vorrebbero celebrare le proprie vittorie, non è cosa da poco. I poveri hanno i difetti di tutti, ma è più difficile per loro indossare la maschera dell’ipocrisia. Poi, soprattutto, i poveri non dichiarano la guerra, non creano campi di sterminio, non sganciano bombe atomiche.
In conclusione, il Giudice divino pronunzia la sentenza: “Venite, benedetti del Padre mio”. Questa benedizione è una cosa seria. Essa è un legame affettivo, prima di tutto. I poveri sono fratelli e amici del Giudice: sono loro i titolari della benedizione e noi ne diventiamo ospiti. E’ giusto che sia così: il Re regna dal trono della croce, è lui il primo Povero e ama chi ama i suoi amici. Nel giorno della nostra povertà, della malattia e della morte, saremo consolati dalla memoria e presenza di chi potrà mettere una buona parola per noi.
26 novembre 2023 don Giuseppe Dossetti