Una delle pagine più potenti del vangelo di Giovanni è la similitudine della vite e dei tralci: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15,1-2). Il portare frutto dipende dal “rimanere” in Gesù: “Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (v.5). Si può “rimanere” e non portare frutto? Evidentemente sì: c’è una sterilità progressiva, che annulla i buoni propositi; e, d’altra parte, il “rimanere” nella vite non è qualcosa di statico, dato una volta per sempre, ma è un processo vitale, che chiede una costante e quotidiana decisione.
Concretamente, ambedue i rami, quello sterile e quello fecondo, subiscono il medesimo trattamento, un taglio doloroso. Solo che, per il ramo sterile, questo taglio è il termine di un processo di separazione, mentre per quello che porta frutto la potatura dolorosa fa parte di un processo di crescita e di pienezza.
Osserviamo che il discepolo non può invocare privilegi. Il vantaggio della fede non è l’esenzione dal dolore, dalla sofferenza. Il credente viene gettato nel mondo, allo stesso titolo dei suoi fratelli uomini. In questo, egli segue le orme del suo maestro, fatto uomo sino alla morte di croce. Guai a chi indulgesse a un certo snobismo spirituale. L’umanesimo cristiano è quello di sant’Ignazio di Antiochia, martire verso l’anno 105: “ È bello per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino … Lasciate che riceva la luce pura; là giunto sarò uomo” (ai Romani 6,1). Il completamento del nostro essere uomini è proprio la potatura ultima, la morte, se essa è una morte per amore.
E’ da notare che il testo di Giovanni non specifica in che cosa consistano i frutti: tutta l’attenzione è rivolta al “rimanere in Gesù”. Questo “rimanere” non è dato una volta per tutte, anche se possiamo scorgerne l’origine nella fede e nel battesimo. Anche tra due amanti l’amore ha una storia, viene in un certo senso rimesso in gioco tutte le volte che la vita ci propone nuove scelte, nuove responsabilità. Nessuno può dire all’amato: “Guarda che ti ho amato abbastanza”. Più avanti, Gesù dirà: “Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” (vv.9s.). I comandamenti sono le esigenze che una storia d’amore pone. Non si tratta delle nobili esigenze di una legge, ma del prezzo che, qui e ora, la mia storia d’amore mi propone, perché possa continuare, anzi, perché possa approfondirsi il legame con quel Tu che mi sta a fronte e che mi promette: “Io sarò con te, sempre”.
Anche il divenire rami secchi non è qualcosa che accada in un momento. Tuttavia, c’è, in questo processo, un’origine, un virus che corrompe anche i propositi più generosi. Esso si manifesta, quando la vita ci pone di fronte all’imprevisto, magari alla rinuncia a nobili obiettivi. In quel momento, appare il desiderio di autosufficienza, la presunzione di chiedere a Dio di farsi garante dei nostri programmi e dei nostri desideri.
L’epidemia che ci sta affliggendo può essere l’occasione per ascoltare una parola esigente, ma portatrice di libertà. Essa è un’umiliazione potente per l’Adamo, il Prometeo, il Faust che è in noi. Essa ci chiede di rientrare nei nostri limiti, ce li sta gettando in faccia. Se noi accettiamo questa umiliazione, se riconosciamo di esserci pian piano separati dall’albero della vita, se riprendiamo il dialogo interrotto con il Tu che alberga nel nostro cuore, se osiamo consegnarci giorno dopo giorno alle sue richieste, allora tante parole possono ritrovare il loro senso. Un esempio tra tutti. Si dice: “Siamo sulla stessa barca”. Non è vero: noi non eravamo sulla barca che è affondata con centoventi persone nel Mediterraneo, mentre il mondo continuava a guardare da un’altra parte. Essere sulla stessa barca, vuol dire che noi saliamo sulla loro, o che noi lasciamo salire loro sulla nostra. Rimanere in Gesù non è pigrizia, ma coraggio.
02 maggio 2021 don Giuseppe Dossetti