Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario Anno C


Dal vangelo secondo Luca (Lc 10, 25-37).

In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte.

Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

Perché il sacerdote non si è fermato ad aiutare il poveretto che era stato massacrato dai briganti? Mi piace pensare che stesse andando a Gerusalemme a un’importante riunione, a un “tavolo”, come si dice oggi, che aveva come tema la repressione del brigantaggio. Magari era in ritardo, e non poteva fermarsi a provvedere a un caso singolo: la politica deve dare delle risposte di sistema.

Mi veniva in mente questa interpretazione, quando ho sentito un illustre uomo politico italiano prendere posizione sulla visita del Papa a Lampedusa, dicendo che un conto è predicare e un conto è governare. Mi piacerebbe rispondere che il Papa predica forse proprio perché non c’è chi governa il fenomeno dell’immigrazione. La politica italiana e europea è timida e inconcludente di fronte a un problema così grave e difficile. Ma c’è, secondo me, proprio in questa parabola, la conferma di quello che disse Andrè Malraux, certamente non un clericale: “Non si può fare politica con la morale, ma neanche senza”. La politica è senza slancio e senza prospettive proprio perché non riesce a darsi un fondamento morale. Il caso dell’immigrazione è da manuale. Infatti, le politiche europee si ispirano a un principio non detto, ma evidente: bisogna difendere la Festung Europa, la fortezza europea, contro le nuove invasioni barbariche. Lo straniero è appunto uno straniero, un estraneo, uno che mi minaccia, anzi, che minaccia la mia civiltà, la mia felicità. L’uomo europeo, come i suoi rappresentanti politici, pone la domanda del dottore della legge: “Chi è il mio prossimo?”. Fino a che punto debbo considerare gli altri prossimi, cioè vicini a me, quindi in diritto di essere aiutati?

L’umanità diventa una serie di cerchi concentrici: al centro ci sono io e la vicinanza o distanza è determinata dalle caratteristiche delle persone: sono miei parenti, appartengono alla stessa nazione, gruppo, cultura; hanno gli stessi ideali; sono moralmente più o meno corretti. La mia benevolenza può dilatare i confini di questa prossimità, ma non sopprimere la visione gerarchica dei rapporti umani.

Gesù mette in crisi quest’uomo virtuoso. Chi è l’uomo mezzo morto, cioè destinato a morire, se qualcuno non lo salverà? E’ l’uomo: ogni uomo, quindi anche il suo interlocutore. Gesù ci invita a riconoscere la nostra fragilità , il male che è in noi e la nostra impotenza. In altre parole, mette in crisi il nostro complesso di superiorità. Oggi, magari, noi siamo forti e vincenti: ma verrà anche per noi il momento, nel quale avremo bisogno degli altri, di una mano amica, di qualcuno che ci conforti. Forse sarà proprio una donna straniera, che mi assisterà nella mia vecchiaia.

Ma c’è di più. La vera ragione per la quale il sacerdote passa dall’altra parte della strada è che egli deve conservare la purità rituale: toccare il sangue lo renderebbe impuro. Qui arriviamo al centro del problema. Non c’è solo la fragilità dovuta ai limiti della vita umana: c’è qualcosa di più profondo, il male che si annida nel cuore, la ferita mortale dell’egoismo e della violenza. Il sacerdote pensa che il male sia fuori di lui e intende difendersi, separandosi. In realtà, anche noi siamo degli ammalati, degli “appestati”, secondo l’immagine di Camus. Questo va detto, non per generare sensi di colpa a tutti i costi, ma perché solo l’onestà di riconoscere il male che è in noi può aiutarci a riconoscere il rimedio.

Quell’uomo ferito, siamo noi, nella nostra impotenza di fare il bene, nel nostro egoismo, nel nostro disprezzo per gli altri, nella nostra indifferenza. Vale per noi
l’accusa del Signore, nell’Apocalisse: “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (3,17). Paolo, a sua volta, afferma l’universalità del peccato, alla quale corrisponde l’universalità della grazia: ”Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,23-25). Tutti peccatori, tutti graziati.

Infatti, il Samaritano, lo straniero disprezzato, chi è? E’ Gesù stesso, respinto dal suo popolo, anzi, dall’umanità intera: ma è proprio il Crocifisso colui che salva, che si carica del peso dell’uomo. L’esercizio della carità da parte del discepolo di Gesù non è una virtù: è un debito di riconoscenza, è il restituire un poco di ciò che si è ricevuto: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.

Gesù rovescia il sistema gerarchico: dobbiamo “farci prossimi”, cioè avvicinarci all’uomo, a ogni uomo. L’uomo ha diritto al nostro aiuto non per le sue virtù o qualità, ma per la sua povertà e il suo bisogno.

Il male dell’uomo, i suoi difetti, la sua miseria debbono suscitare in noi la compassione: noi eravamo o potremmo essere stati o essere così! Quello che siamo, la nostra libertà, è dono di grazia, ha un prezzo, il sangue del Figlio di Dio. Penso che tutti dovremmo rileggere questa parabola. Certamente, gli uomini politici, ai quali dobbiamo chiedere segni concreti di un interesse per le sofferenze di quel popolo che li ha eletti: purtroppo ascoltiamo solo un vociare su interessi di parte e ci viene da chiedere: voi conoscete la sofferenza degli uomini, la tragedia di chi è senza lavoro, di chi perde la casa, di chi deve mettersi in coda per un pacco di alimentari? Oppure, siete non dall’altra parte della strada, ma molto più lontani? Anche coloro che hanno ricchezze dovrebbero riflettere: è lecito investire il denaro in qualcosa che non sia la creazione del lavoro? Cosa c’è di più immondo della speculazione finanziaria, che si celebra in templi asettici, dove il computer tiene lontano il morso della fame, la disperazione di coloro che nulla possono, di fronte a forze che decidono per lui a migliaia di chilometri di distanza?

Ma la domanda è rivolta anche a ciascuno di noi, la domanda di Dio a Caino, che il Papa ci ha richiamato: “Dov’è tuo fratello?”. Tuo fratello non è lontano: forse, se tu lo ascoltassi anche solo per cinque minuti, ti renderesti conto che egli è come te, e che oggi, nella grande tragedia che stiamo vivendo, nessuno può dire: “Io non c’entro, io non posso fare nulla”. L’umiltà ci guidi alla verità e la verità all’amore.

Don Giuseppe Dossetti

 

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