“PERCHE’ COLORO CHE NON VEDONO, VEDANO”


Terza Lettera alla comunità al tempo del coronavirus

 

Cari amici,

            Continua la nostra reclusione: qui in canonica a san Pellegrino stiamo tutti bene, ma c’è una grande nostalgia per la vostra presenza. Cerchiamo di riempire il silenzio con la preghiera, le telefonate, le lettere … ma nessuno sa fino a quando. Ho letto la poesia di Mariangela Gualtieri: “Ci dovevamo fermare/ e non ci riuscivamo./ Andava fatto insieme./ Rallentare la corsa./ Ma non ci riuscivamo./ Non c’era sforzo umano/ che ci potesse bloccare./ Adesso siamo a casa”. E’ proprio così: siamo stati fermati, bruscamente, duramente: approfittiamo del tempo per riflettere su di noi, su quello che è davvero importante. Ci guidi la Parola del Vangelo, così bella e forte anche nella prossima domenica, la domenica del Cieco Nato (Giovanni 9,1-41).

            Rileggete l’episodio e, se potete, guardatene l’interpretazione di Renato Rascel nel “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli (la trovate tra i sussidi per la preghiera nel sito dell’UP).

            Gesù accompagna i suoi interlocutori a vedere le cose in modo nuovo: il piccolo, il poverello, si lascia guidare; nella sua semplicità, resiste ai sapienti, accetta di essere “gettato fuori”, non ha esitazioni nel professare la fede in colui che con tanta bontà e dolcezza è entrato nelle sue tenebre e le ha rischiarate. Invece, i sapienti non accettano l’invito e a loro viene rivolta una delle parole più dure di Gesù: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane”.

            Ecco: il punto di partenza è proprio il riconoscere che siamo ciechi. Non dovrebbe essere difficile, al tempo del coronavirus: non riusciamo a dare un senso a quello che sta accadendo, ignoriamo le cause e le prospettive future. Riconoscere questo, è già un passo avanti, perché dovrebbe renderci più umili e anche più capaci di allargare il nostro sguardo. Mariangela Gualtieri ci ha dato già un buono spunto, ricordandoci la velocità malsana della nostra vita.

            Io aggiungo due considerazioni. Gesù vuole che vediamo la sofferenza degli altri, nei confronti della quale spesso siamo ciechi. Questa mattina, aprendo la chiesa, ho trovato, nell’angolo del muretto davanti alla porta, un uomo. Aveva dormito su un pezzo di cartone, con il suo sacco a pelo. Per fortuna, stanotte non è piovuto. Dopo un po’, ha preso le sue cose e se ne è andato. Possiamo archiviare questo episodio come normale? O non è esso un richiamo a ricordare la sofferenza di tanti, uomini come noi, ma così diseguali quanto a possibilità? Ci stiamo abituando a vedere con indifferenza quello che capita al confine tra Turchia e Grecia. Ma cosa vuol dire “vedere”? Anche se rimaniamo nel nostro senso di impotenza, almeno, non rifiutando uno sguardo, riconosciamo a queste persone la loro dignità.

            La seconda considerazione riguarda la natura. Nel libro della Genesi, Dio pone l’uomo nel giardino, “perché lo custodisca e lo coltivi”. Ma quando l’uomo vuole essere il dio di se stesso, anche il rapporto con la natura diviene conflittuale: “Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finchè non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,17-19). Come non vedere in questa epidemia la ribellione della natura alla violenza che le viene continuamente inflitta dall’uomo?

            La terra può ritornare ad essere un giardino, ma non sono sufficienti la scienza e la tecnica. E’ fin troppo evidente che è necessaria una conversione del cuore, l’umiltà di riconoscere che abbiamo stravolto l’ordine delle cose. Noi siamo stati fatti a immagine di Dio (Gen 1,27) e ci è stato consegnato il dominio sulla creazione (Gen 1,28-30); ma quando noi neghiamo di essere immagine, cioè di avere un potere delegato, da esercitare secondo la volontà di chi ce lo ha conferito, quando la nostra superbia ci persuade di essere padroni assoluti, ecco che nasce la violenza omicida (Caino e Abele), ma anche suicida, perché distruggiamo il legame fecondo tra noi e l’ambiente.

            Dunque, Signore, apri i nostri occhi; ma, anzitutto, purifica il nostro cuore dall’idolatria, facci riconoscere il nostro peccato, ma anche la via del ritorno a te.

            Gesù ci risponde con una domanda: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.

            Questo titolo è davvero singolare. Esso, però, è l’unico che Gesù attribuisca a se stesso nel vangelo. Certamente, nell’Antico Testamento, designava una figura misteriosa, che negli ultimi giorni avrebbe esercitato il giudizio. Ma Gesù lo collega anche alla sua passione: “Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risusciterà” (Mt 17,22s.).

            Gesù, dunque, chiede al cieco, ma anche a noi, di accettare che la luce del mondo sia proprio lui, il Crocifisso, l’agnello immolato, il servo disprezzato, che, come dice Isaia, “si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4). Si avvicina la Pasqua, nella quale viene innalzato davanti ai nostri occhi quel segno, che ci pone di fronte alla nostra realtà, di uomini miserabili, violenti, mortali. Ci viene chiesto di credere che Dio è voluto scendere nei nostri abissi. Ci viene chiesto di accettare che la sua via sia anche la nostra via. Ci viene chiesto di credere che, se lo faremo, noi vedremo la luce e attorno a noi rifiorirà il Giardino.

            Questo vuol dire, ripetere con il cieco: “Credo, Signore!”.

 

Don Giuseppe Dossetti

 

Unità Pastorale “Santa Maria Maddalena”, Reggio Emilia  –  17 marzo 2020

giuseppedossetti@solidarieta.re.it

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Sussidio preghiera IV Domenica di Quaresima