In questo periodo dell’anno, guidavo spesso un pellegrinaggio in Terrasanta. Inoltre, da tempo sono responsabile della parrocchia di san Pellegrino e proprio il primo di agosto è la festa di questo santo, molto caro soprattutto agli abitanti della nostra montagna. La sua tomba si trova all’Alpe omonima, in uno degli itinerari più antichi che attraversano la nostra provincia. Dunque, mi sono chiesto spesso che cosa significhi il pellegrinaggio, una pratica diffusa in tutte le religioni; pensiamo ad esempio all’Hajj, il pellegrinaggio dei musulmani alla Mecca.
Nella considerazione prevalente, il pellegrinaggio è un piccolo deserto mobile: si è costretti al silenzio, al colloquio con se stessi. C’è un forte aspetto ascetico, cioè la considerazione sincera di ciò che è veramente necessario; si fa un’esperienza di leggerezza, grazie al distacco da tanti bisogni artefatti. Ci si chiede anche quale sia la meta della vita. Il pellegrino non è un girovago: anche se non conosce il termine verso il quale è incamminato, egli però sa che esso esiste, che è come il tesoro nascosto nel campo, per il quale vale la pena vendere tutto.
Questi aspetti sono presenti anche nel pellegrinaggio del cristiano, ma con un elemento decisivo in più: il pellegrinaggio nasce dall’incontro con una parola. Questo vale anzitutto per il primo pellegrino della storia, Abramo: “Il Signore disse ad Abramo: vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1). Il contenuto è paradossale, la richiesta è enorme, la promessa è apparentemente assurda. Ma la parola è stata pronunziata: è l’offerta di un rapporto definitivo ed eterno e, se il prezzo è mettere in gioco tutto, ne vale la pena. Per Abramo, il pellegrinaggio dura tutta la vita, è quello che duemila anni dopo dirà Paolo di Tarso: “Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (Fil 3,12).
Anche il pellegrinaggio in Terrasanta ha come scopo l’incontro con due parole. La prima, all’inizio, alla grotta dell’Annunciazione a Nazareth. Su un cartiglio dell’altarino francescano sta scritto: “Hic Verbum caro factum est”. La frase del vangelo di Giovanni viene riportata con un’aggiunta decisiva: “Il Verbo si è fatto carne qui”. Dio è entrato nella quotidianità dell’uomo, nella vita ordinaria di una povera famiglia ebrea; come commenterà san Giovanni, “Dio ci ha amati per primo”(1Gv 4,19), egli non seleziona né guarda ai meriti, egli è vicino all’uomo, a ogni uomo, soprattutto ai piccoli e ai peccatori.
La seconda parola viene pronunziata proprio alla fine del pellegrinaggio, al Santo Sepolcro. Di fronte a quel sepolcro vuoto, è come se l’angelo dicesse anche a noi: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? E’ risorto, non è qui” (Lc 24, 5s.). Ci potremmo chiedere: ma allora, cosa siamo venuti a fare, se Gesù non è qui? La nostra ricerca ha imboccato una strada senza uscita? E, se non è qui, dov’è, allora? La risposta ci viene data: “E’ risorto dai morti ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete” (Mt 28,7). Che cos’è la Galilea, per noi? E’ la nostra quotidianità, la famiglia, il lavoro, le nostre responsabilità. Per questo, si ritorna da Gerusalemme nella gioia, perché sappiamo che il Risorto è presente in ogni momento e ci dice: “Non temere, io sono con te”.
Così, tutta la vita diventa un pellegrinaggio, non il susseguirsi di episodi senza uno scopo: tutto acquista senso, tutto diviene “parola”, cioè l’invito a seguire il Maestro: anche nella tempesta, egli è presente. Anche il dolore, anche le situazioni difficili ci invitano ad ascoltare, a riflettere, eventualmente a cambiare il nostro modo di vedere. Anche la pandemia. Essa ha distrutto, ma è possibile ricostruire. Non però con l’orgoglio di chi dice: “I mattoni sono caduti, ricostruiremo in pietra” (Isaia 9,9), inseguendo l’illusione di Adamo, di essere gli artefici della propria felicità. Dovremo pensare alla nostra vita come alla tenda di Abramo: giorno dopo giorno, egli crebbe nella fede, fino a diventare l’”amico di Dio”.
01.08.2021 don Giuseppe Dossetti