Questa domenica, la prima del tempo di Avvento, entra in vigore la nuova traduzione del Padre Nostro. Non diremo più “non ci indurre in tentazione”, ma “non abbandonarci alla tentazione”.
Certo, il verbo cambia, ma la tentazione rimane. E’ importante capire in che cosa consista: non si tratta degli allettamenti della gola o di altri piaceri mondani, è molto di più. Siamo oggi nelle condizioni di capirlo, vivendo la tribolazione della pandemia: la tentazione è quella contro la fede e precisamente contro la fede nella paternità di Dio. E’ come se qualcosa ci dicesse, “Dio si è dimenticato di noi, oppure neanche lui vuole o può cambiare il corso delle cose”. Non dobbiamo però essere troppo severi con noi stessi: anche Gesù ha vissuto questa tentazione. Il suo grido sulla croce lo dimostra: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Perché allora Dio permette tanto dolore, tanta angoscia? Perché ci abbandona –così sembra- alla solitudine e all’impotenza? Non siamo i primi a farci questa domanda. Già gli Apostoli hanno cercato di consolare il loro gregge. Un esempio mirabile lo troviamo nella prima Lettera di san Pietro (1Pt 1,3-9). Egli paragona la fede del cristiano a un metallo prezioso: esso viene messo nel fuoco per essere purificato dalle scorie e diventare ancora più prezioso. Già il libro della Sapienza (3,5-6) aveva detto che Dio aveva saggiato i giusti “come l’oro nel crogiolo” e li aveva trovati “degni di sé”. Degni di Dio! un’affermazione incredibile, che corrisponde all’affermazione di san Pietro: “Voi amate Gesù, pur senza averlo visto ed esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime”.
In cosa può consistere questa purificazione? Per noi, oggi, il virus ha voluto dire una potente e radicale presa d’atto della provvisorietà del mondo e della storia. Ci eravamo illusi, più o meno consapevolmente, di essere gli artefici del nostro avvenire: ora, sappiamo che non è così e dovremmo custodire il pensiero della nostra fragilità, evitando di dimenticarla appena le cose si mettessero un po’ meglio. Il risveglio dall’illusione è stato però molto duro e molti rischiano di chiudersi in una depressione rancorosa. Per questo, nel vangelo di questa domenica, la parola decisiva è: “Vegliate!”: una veglia che è attesa, perché il Padrone verrà, e il suo apparente ritardo vuol essere un richiamo alla nostra fedeltà, perché l’incontro sia slancio, consegna; perché la sofferenza e la fatica ci diano il diritto di guardarlo negli occhi: “Tu mi hai messo alla prova e io ho lottato con te, come Giacobbe con l’angelo; mi hai stretto da vicino, ma da questo abbraccio ho tratto la forza per vincere e oggi mi consegno a te nella fiducia”.
Questa vigilanza non è inerzia: veniamo paragonati a dei servi, “ciascuno con il suo compito”. C’è il desiderio di consegnare il proprio lavoro ben fatto. Anzi, il lavoro aiuta a tenere accesa la lampada. Il paradosso è che il pensiero della fine rende più liberi nel presente.
Tuttavia, si tratta di un esercizio non facile. Oggi, veniamo a conoscenza di situazioni estreme, come le carceri della Libia o la guerra in Etiopia. Come si fa a conservare la fede, quando la dignità dell’uomo è calpestata e i tuoi fratelli uomini voltano la testa dall’altra parte?
Per questo, nel Padre Nostro chiediamo che il Signore usi moderazione, che non esageri nel metterci alla prova. In realtà, egli è ben consapevole della nostra debolezza. Nell’Orto degli Ulivi, egli suggerisce ai discepoli lo strumento della resistenza: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione” (Mt 26,41). Di fatto, come gli apostoli, anche noi siamo spesso vinti dalla tristezza: “Li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti” (26,43). Non li sveglia e va di nuovo a pregare per sé e per loro. Per questo, Pascal scrive: “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo“. Come dice san Paolo, “Dio non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1Cor 10,12).
29 novembre 2020 don Giuseppe Dossetti