“MEMORIA E SPERANZA” – 95^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Domenica scorsa abbiamo ricordato il sacrificio di don Pasquino Borghi e dei suoi otto compagni, fucilati all’alba del trenta gennaio del millenovecentoquarantaquattro dai rappresentanti di un regime, quello fascista, che aveva trascinato l’Italia nell’abisso della guerra e, ancora prima, nella perdita della dignità morale, culminata nella legislazione “per la difesa della razza”. I nove condannati scontavano la loro libertà di coscienza e l’aspirazione a una patria giusta e fraterna. In più, don Pasquino aveva ospitato prigionieri fuggiaschi e i primi “ribelli”, che davano inizio alla resistenza contro l’occupante nazista e i suoi collaboratori repubblichini.

              Coloro che assistettero a quei momenti terribili, riferirono la serenità di questi uomini, nel momento supremo del loro supplizio, e in particolare del sacerdote, che già prima, nel carcere dei Servi, li aveva confortati. Non ci fu ribellione, ma consegna consapevole, come se la morte fosse la conseguenza e il sigillo dei loro ideali.

              Capire le ragioni di questa serenità può essere importante per noi, per vivere questo nostro tempo difficile, di malattia e di insicurezza. Chiediamoci onestamente: come stiamo vivendo queste settimane, nelle quali sembra che la morsa della pandemia si stia allentando? Temo che ci sia in noi il desiderio di ritornare alla “normalità” precedente. Ma era veramente normale il mondo prima di questi due anni ? Questi due anni non ci hanno insegnato niente, sono semplicemente da buttare?

              Non sarebbe giusto, soprattutto nei confronti dei morti. Dopo l’ultima guerra, coloro che fecero rinascere il Paese, sentivano la responsabilità verso i loro compagni caduti. Un esempio fra i tanti: Giuseppe Dossetti senior, intervenendo all’Assemblea Costituente, ricordò la battaglia del giorno di Pasqua del 1945, sul nostro Appennino, nella quale fu ferito a morte Elio Manfredi: “Credetti  di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse ed assentisse e, con gli ultimi esili sforzi della voce, confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi”.

              Ho pensato a questo episodio, ascoltando il discorso d’insediamento di Sergio Mattarella. Anche lui è stato segnato dalla morte di persone care, del fratello, ucciso dalla mafia. Nelle sue parole, nel richiamo insistente alla dignità, che deve essere perseguita da tutti, soprattutto da chi ha responsabilità pubbliche, ho sentito la passione di chi si sente in debito verso coloro che hanno dato la vita, in nome di un ideale di giustizia, di pace, di solidarietà fraterna.

              Per questo, è così importante conoscere la storia, con la sua grandezza e miseria. Senza di essa, siamo senza radici, esposti alle seduzioni di chi sa manipolare le emozioni umane. E’ preoccupante la quantità di odio, che viene riversata, purtroppo spesso in modo consapevole, per guadagnare consensi. Chi lo fa, sarà a sua volta travolto: la seduzione non costruisce, anzi, sappiamo benissimo che genera ingiustizia e al limite anche la guerra e la morte. Nello stesso tempo, la storia ci mette in rapporto con uomini e donne che non hanno permesso al male di togliere loro la serenità, e hanno saputo trasmetterla agli altri.

              Questi, che noi chiamiamo testimoni, hanno in comune un orientamento della vita, che sempre mi commuove: arriva il momento, nel quale essi si consegnano. E’ grande generosità seguire grandi ideali; ma è ancora più grande accettare il limite e consegnarsi a un Tu, del quale alcuni conoscono il nome, ma che comunque rappresenta l’orizzonte al quale tutti sentono di appartenere.

              Questo rapporto è così forte, che persino la morte diviene non fallimento, ma compimento, l’ultima “stazione sulla via della libertà”, come la chiamò uno di loro, Dietrich Bonhoeffer, ucciso pochi giorni prima della fine della guerra. Capisco che per me e per le persone del mio tempo questo atto supremo è più difficile. Forse, ci è stata promessa l’immortalità, frutto della scienza, della ricchezza, della capacità di distruggere i nemici. Questa malattia universale è l’occasione per riconoscere il nostro limite. Lo accoglieremo come l’occasione per aprire la mente e il cuore al tu dell’uomo e a quello di Colui che molti di noi chiamano Dio?

              La serenità non deriva dal possesso, ma dalla speranza; la speranza nasce dal consegnarsi a Colui che è il signore della vita, che ce l’ha donata e la riprende, custodendola nel suo cuore di Padre.

06 febbraio 2022                                                               don Giuseppe Dossetti