Lettera Natale 2017


Pubblichiamo la lettera che don Giuseppe ha scritto ai parrocchiani in occasione del Natale 2017…Buona lettura

Cari amici,
l’augurio di un buon Natale può sembrare un po’ ripetitivo e convenzionale. Potremmo

addirittura chiederci che senso abbia lo scambiarci buoni sentimenti, che vengono poi deposti al più tardi l’ultimo giorno dell’anno. Una bella favola, potremmo pensare; e chi delle favole è stanco, preferisce il viaggio esotico o qualche eccesso domestico.

In verità, il Natale non interessa ai grandi della terra; magari, il loro segretario manderà un biglietto d’auguri : “Buone Feste”, sarà scritto sul cartoncino, forse per timore di urtare qualche sensibilità o, più semplicemente, perché non si sa che fare del Festeggiato, piccolo, ma anche ingombrante.

Del resto, fu così anche allora, quando Gesù nacque. Cesare Augusto si godeva la pax romana, e così anche Erode, se non fosse stato per il fastidioso incidente con quegli stralunati astronomi che venivano da Babilonia, incidente peraltro risolto con un’incursione dell’esercito a Betlemme.

Papa Francesco parla spesso delle “periferie esistenziali” dove la Chiesa dovrebbe costantemente recarsi: il Fondatore, nella periferia, ci è nato. Chiedersi il perché, non è inutile.

Credo che prima di tutto egli lo abbia voluto per esprimere il suo rispetto per la libertà dell’uomo. Nel vangelo, non troviamo alcuna sollecitazione, niente che possa assomigliare alla propaganda. I cori celesti degli angeli si esibiscono davanti a dei pastori, i più improbabili nel ruolo di ambasciatori. Ai Magi viene mostrata una stella, che scompare nell’inquinamento luminoso, che, a quanto sembra, c’era anche allora a Gerusalemme: riapparirà, quando i vecchi pellegrini usciranno dalla città, verso la piccola Betlemme. Libertà, dunque, perché l’amore si offre, non si impone; ma lo si deve anche cercare, perché è,sì, gratuito, ma è anche esigente, non si espone in vetrina per essere comprato e consumato.

Conviene allora che diamo valore alla nostra piccola periferia, alla nostra famiglia, alla nostra comunità. E’ bello vivere l’intimità di un incontro, di una visita da parte di un ospite che ci dice che per lui siamo importanti, come è importante ogni uomo, anche il più misero e il più peccatore. E’ bello guardarsi reciprocamente, come si guarda un dono: vedere i bimbi , che hanno ancora, malgrado tutto, la capacità di stupirsi; guardare con simpatia gli adolescenti, che dietro l’immagine accigliata o insofferente nascondono il desiderio e la paura di diventare uomini; guardare lo sposo o la sposa, per riconoscere nell’altro il proprio fondamento, il terreno solido, grazie al quale abbiamo affrontato le prove della vita e sul quale sappiamo che possiamo edificare le nostre speranze; guardarsi anziani e stupirsi della strada fatta insieme e della bellezza che riconosco nella persona che mi sta di fronte. Anche per me, prete, c’è uno sguardo di gratitudine, per una comunità bella, concorde, strumento armonioso, dice sant’Ignazio d’Antiochia, suonato dallo Spirito Santo. Anche chi è solo o malato percepisce che i limiti della vita sono come i gradini di una scala, verso una gioia più grande.

L’esperienza di questa dolce intimità ci aiuta a guardare con occhio diverso il mondo. Possiamo accumulare – è così facile, oggi! – motivi di dissenso e di condanna; ci confrontiamo ogni giorno con povertà e problemi più grandi di noi; se non siamo preoccupati per noi stessi, lo siamo per i figli o gli amici o il futuro del nostro paese. Ma Dio, con che sguardo guarda il mondo, questo mondo? Cosa può pensare, vedendo Gerusalemme, che dovrebbe essere, come lo dice il nome, “città della pace”, e che oggi è il simbolo di prevaricazioni, ingiustizie, odii feroci? Quando il Suo nome è usato per dare la morte all’uomo, per giustificare il disprezzo della vita dell’altro, ma anche della propria? Quando uomini e donne subiscono violenze atroci nei loro viaggi verso una speranza spesso inesistente? Quando per denaro si profana l’uomo, si sfruttano le sue debolezze, si derubano le risorse di intere nazioni?

E’ così facile, allora, pronunziare sentenze di condanna, tirare su dei muri e cercare di costruire una Città di Dio sulla terra, che, per quanto piccola, ci dia un po’ di sicurezza. Ma questo non va bene, non è la volontà di Colui che “non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17). Il male c’era anche allora, e quanto! Il Regno di Dio si deve confrontare con il regno di un’altra potenza, che vuole la morte dell’uomo. A questo proposito, vi preavviso che la catechesi annuale, che tengo in gennaio, sarà proprio sul demonio, una realtà che viene negata o esagerata, atteggiamenti ambedue errati. Gesù è venuto “per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8), e ha trasmesso questo potere alla Chiesa: “Nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Mc 16,17s.). Dunque, la Chiesa non deve avere paura, anzi, deve avere per l’uomo sofferente e anche peccatore lo stesso atteggiamento di tenerezza di Gesù. Anche noi un tempo eravamo o saremmo potuti essere così: il Samaritano non deve aver ribrezzo di toccare le piaghe dell’uomo.

Trascrivo una bella riflessione di Enzo Bianchi: “… Una Chiesa e dei cristiani che non si impongono ma propongono con mitezza e dolcezza; ecco dei discepoli di Gesù che non si sentono assediati né militanti di fronte a una società avvertita come nemica e condannata … Noi oggi, essendoci scoperti come minoranza in mezzo a una marea di indifferenti, avendo perso quella rilevanza a cui eravamo abituati, possiamo essere tentati, soprattutto di fronte a una cultura dominante non più cristiana e a volte anche impegnata nel percorrere sentieri che contraddicono l’umanesimo cristiano, di perseguire forme di presenza forti e aggressive, che ci fanno assumere toni arroganti e ci inducono ad atteggiarci come profeti di sventura. In ogni caso, attraverso una cattiva comunicazione noi trasformiamo la buona notizia in un’opposizione all’uomo contemporaneo. L’apostolo Pietro raccomanda invece ai cristiani “un bel comportamento” (1Pt 2,12), una pratica cordiale del confronto e dell’alterità, senza ostentazione di certezze che mortificano”. 

Se questo sarà il nostro atteggiamento, lo stile delle nostre comunità, il nome di Dio ritornerà ad essere un nome di pace e avrà un senso augurarci un buon Natale. La tenerezza di Dio e la dignità di ogni uomo sono apparse in quella “periferia”, che oggi appare invece come il centro della storia e della nostra vita.

Vostro don Giuseppe

Scarica qui la lettera (PDF)


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