LETTERA AI MIEI FRATELLI DELL’UNITA’ PASTORALE
“SANTA MARIA MADDALENA”
IN OCCASIONE DEL NATALE 2018
Cari amici,
Ormai mi capita spesso di fare dei bilanci. Forse, è un sintomo della vecchiaia, ma nel mio bilancio non c’è pessimismo, anzi, cè una grande gratitudine verso Dio e, per quel che riguarda la mia attività di parroco, verso voi tutti.
La prima parola che voglio dirvi in questo Natale è proprio un grazie, sentito e cordiale.
Voi siete davvero una bella comunità, che il Signore ha arricchito di tanti doni. Dopo la partenza di don Davide, vi siete prese tante responsabilità, così che io non mi sento solo, ma circondato da persone che condividono con me il desiderio di servire il Signore.
So anche che la vostra vita non è sempre facile. Proprio per questo, vorrei dirvi una parola di consolazione. Vorrei fare l’elogio della precarietà.
In effetti, c’è un pericolo, per chi, come noi, ha ricevuto il dono della fede e il desiderio di viverla in modo coerente.
Lo chiamerei il rischio dell’assuefazione.
Ci si abitua a tutto, anche alle cose più belle. Ma così il Vangelo perde la sua forza, la sua novità. Le parole grandi della nostra fede diventano quasi scontate.
Ci abituiamo a dire che Gesù è il nostro Salvatore, ma magari facciamo fatica a spiegare che cos’è questa salvezza.
Ci abituiamo a partecipare all’Eucaristia, ma senza più stupore e senza il desiderio di scoprirne le insondabili ricchezze.
E’ facile, allora, trasformare il nostro essere cristiani in una serie di comportamenti, di obbedienze a regole e valori, elevati e nobili: ma il Cristianesimo non è questo.
Infatti, la liturgia natalizia esordisce dicendo: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto la grande luce” (Isaia 9,1). Solo chi conosce le tenebre sa apprezzare la luce; solo chi è stato prigioniero sa apprezzare la libertà; solo chi si è smarrito conosce la bellezza di aver trovato una casa. Vi ho citato la frase di un vescovo africano martire: “Ci sono cose che vengono viste bene solo da occhi che hanno pianto”.
Si capisce allora che non bastano i saggi consigli della sapienza, i valori di una visione generosa della vita. Si riscopre Gesù, la mano di Dio tesa a noi poveri e peccatori. Comprendiamo che era davvero necessario che lui versasse il suo sangue, perché solo esso ci dà la certezza del perdono e di quella inesauribile misericordia, che ci consente di ricominciare sempre e di mai disperare, né per noi stessi né per le persone che amiamo.
I santi ci indicano il modo giusto di accostarci al Natale. San Francesco inventa il presepio, per rivivere lo stupore dell’Incarnazione; sant’Alfonso Maria de’Liguori compone quella che per me è la più bella canzone natalizia, “Tu scendi dalle stelle”. Quanta verità, nelle parole ingenue e un po’ faticose della seconda strofa: “A Te che sei del mondo il creatore/ mancano panni e fuoco, o mio Signore. / Caro eletto pargoletto/ quanto questa povertà/ più m’innamora/ giacché ti fece amor povero ancora”.
Ecco perché questo nostro tempo difficile è un’occasione per dare alla nostra fede lo slancio dell’amore, per toglierle la patina dell’abitudine, la polvere della ripetitività. Infatti, l’amore non è mai ripetitivo, ma sempre nuovo.
E’ vero, viviamo in un mondo difficile. Soprattutto, colpiscono la paura e la rabbia che occupano il cuore di tante persone. Contemplare Gesù nel presepio può essere la medicina. Infatti, di fronte a lui, così inerme,sentiamo quanto grande sia il dono che ci viene offerto. Quanta tenerezza, nell’immagine di Maria che culla il suo bimbo! L’Inno Akathistos della Chiesa greca dice meravigliosamente:
“I pastori udirono gli angeli cantare
la presenza di Cristo nella nostra carne.
Correndo a vedere il Pastore
lo contemplano come agnello innocente
che pascola nel grembo di Maria”
Dio sta facendo la pace con noi, consegnandosi alle nostre mani. Come possiamo considerare gli altri uomini come dei nemici, o chiudere gli occhi e il cuore alle loro necessità?
Mi permetto di farvi tre raccomandazioni.
La prima: state vicini ai poveri. Come vi ho detto spesso, non è detto che i poveri siano migliori dei ricchi, che non abbiano difetti anche gravi. Ma Dio ha scelto loro, non per i loro meriti ma per la sua misericordia. Anzi, li ama tanto, da considerare come reso a Lui stesso ogni servizio che possiamo prestare a chi ha fame, a chi non ha casa, a chi è stanco, a chi è malato.
Stare vicini ai poveri custodisce la nostra fede, perché in essi, misteriosamente, facciamo l’esperienza dell’incontro con il Signore.
I poveri purificano l’atmosfera delle comunità: delle famiglie, anzitutto. Essi arricchiscono la comunione tra gli sposi, perché dilatano la loro mente e il loro cuore; grazie a loro, diventa più facile custodire la fede dei figli; essi ci aiutano a portare con maggiore pazienza le nostre croci.
Poi, i poveri purificano l’atmosfera delle comunità parrocchiali. Inevitabilmente, diminuiscono le chiacchiere, i giudizi, le divisioni, i puntigli. Essi diventano la carne e il sangue della nostra preghiera, ci proteggono dal rischio dell’ipocrisia.
Infine, essi possono purificare l’aria delle comunità più vaste, della città, della nazione, perché ci costringono a un salutare esame di coscienza. L’egoismo è certamente un male, ma esso deriva da qualcosa di più profondo, dalla superbia. Essa si rivela nella convinzione ostentata di essere i padroni della nostra vita (e spesso di quella degli altri!). C’è invece una nostra povertà, presente o futura, che dovrebbe convincerci che una società più solidale sarà di aiuto a noi, quando a nostra volta avremo bisogno di aiuto.
La seconda raccomandazione è, che consideriate sempre più la Messa come il centro della vostra vita. Essa è un continuo Natale, perché in essa Dio si fa pane. Come con la cura dei poveri, si tratta di un dato di esperienza: la Messa ci rasserena, dilata il cuore, ma anche la mente. Diventiamo più intelligenti, perché illuminati dalla luce divina.
La terza raccomandazione: raccontate il Natale ai vostri bambini e dite loro che Gesù li ama.
Con molto affetto, vostro
Don Giuseppe