“LE DUE CITTA’” – 110^lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra – don Giuseppe Dossetti


Due città si ergono, una di fronte all’altra: Babele e Gerusalemme. Ambedue vogliono unire gli uomini e far sì che parlino una lingua comune; diversa è però la via che ciascuna ha scelto.

              Babele ha scelto di edificare la torre, un riferimento costante all’orizzonte, il simbolo di un potere che veglia, perché nulla disturbi l’ordine che l’uomo ha costruito. Babele è la città di Adamo, dell’uomo che adora l’opera delle proprie mani. In essa si parla il linguaggio del denaro e della forza: ma, nonostante gli sforzi, l’incomunicabilità rimane e l’unità è apparente. Quando il grande inganno del comunismo sovietico cadde, si manifestarono i prezzi altissimi che erano stati imposti all’uomo, promettendogli la felicità. Oggi, le manipolazioni sono più sottili e forse più efficaci. In ogni caso, viene richiesta, e talvolta imposta, la rinunzia alla libertà.

              A Gerusalemme, quel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, i pellegrini di tutte le nazioni, convenuti in città per la festa, odono il rombo di un vento impetuoso e vedono un fuoco ardente scendere dall’alto. Alcuni uomini e donne escono da un cenacolo e portano un annuncio sorprendente: il loro Maestro, che era stato abbandonato, respinto e, infine, crocifisso, è risorto. La “Pentecoste”, il cinquantesimo giorno, era la festa dell’alleanza tra il Dio degli Ebrei e il suo popolo: ora, questo rapporto diviene universale, con tutti i popoli. La diversità delle lingue non è un ostacolo, perché tutti comprendono che la risurrezione di Gesù è la forma estrema, universale e perenne, della fedeltà di Dio all’uomo, a tutte le genti, come era stato promesso ad Abramo.

              Il fuoco e il vento sono simboli dello Spirito di Dio, Spirito creatore: Egli è una realtà originaria, non è frutto di un’evoluzione umana; né, d’altra parte, è la ricompensa alle virtù e alle opere dell’uomo. Per questo, nell’antica letteratura, è chiamato Dono.

              Dice san Paolo: “Lo Spirito <santo> attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio”. Anzi, Egli mette nel nostro cuore e sulle nostre labbra la stessa parola di Gesù: “Abbà, Padre” (Rm 8,15-16). Questa parola è “cattolica”, cioè universale, sgorga dall’intimo dell’uomo, che partecipa alla risurrezione del Cristo. Tuttavia, talvolta sembra che coloro che hanno il dono di pronunziarla, siano un po’ balbuzienti.

              Non credo che questo dipenda dai peccati dei cristiani: o, meglio, essi sono la conseguenza di un peccato più originario. Esso può consistere nel tentativo di costruire una torre alternativa a quella di Babele, spesso con sforzi generosi: il rischio è di assumere gli stessi criteri e i metri di giudizio dell’interlocutore.

              Mi pare che, come sempre, il punto di partenza debba essere l’umiltà: “Principio della sapienza è il timore del Signore” (Proverbi 10,7). Avere il “timore di Dio” significa essere consapevoli della distanza tra Lui e l’uomo e quindi della sua “condiscendenza”: in verità, Egli è “disceso” negli abissi della morte e del peccato, per ricuperare la sua creatura, la sua pecorella. Solo quando ci convinciamo profondamente che tutto è grazia, che nulla meritiamo, che abbiamo bisogno di essere amati, solo allora diveniamo sapienti.

              Come insegna il catechismo, i doni dello Spirito sono sette: la sapienza e il timor di Dio sono il primo e l’ultimo. Essi definiscono la libertà del cristiano: sapienza, infatti, vuol dire essere avere un pensiero libero, vedere le cose con l’occhio di Dio. Consideriamo, però, anche il dono della “pietà”. Essa è il cuore buono, la capacità di commuoversi di fronte alla sofferenza. La pietà ci mette di fronte alla croce di Dio e a quella dell’uomo.

              La pietà ci impedisce i giudizi sommari, la facile pretesa di essere noi sempre dalla parte della ragione. La pietà impedisce che il conflitto generi l’odio e conserva sempre uno spiraglio per il perdono. Solo la pietà porta alla pace.

              Quando si parla di vittoria nella guerra, ci rendiamo conto del prezzo di questa pretesa vittoria? Chiunque vinca, al suo monumento faranno da piedistallo i morti, i violati, gli esuli, i disperati.

              La pietà aiuta a essere sinceri: come non vedere che oggi i sacrifici sono fatti dai poveri, mentre chi è ricco lo diviene sempre di più?

              Non rassegniamoci. Gesù ci dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,27). Mettiamoci in ascolto del “Paraclito”, dello Spirito difensore e consolatore. “Buono  e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori; guida gli umili secondo giustizia, insegna ai poveri le sue vie” (Salmo 25,8s.).

05 giugno 2022                                                                     don Giuseppe Dossetti