186^ lettera alla comunità al tempo della conversione

La Quaresima si apre con il racconto della tentazione di Gesù: quaranta giorni ci separano dalla Pasqua e quaranta giorni il Figlio dell’Uomo rimane nel deserto, a tu per tu con l’Avversario.

Vorremmo sapere di più su questa tentazione; i vangeli di Matteo e di Luca ne danno una descrizione più ampia, mentre Marco si limita ad annotare l’evento, aggiungendo però un particolare importante, che cioè Gesù “stava con le bestie feroci”. Inoltre, Marco, come Matteo, menziona il servizio degli angeli al Figlio dell’Uomo.

Queste annotazioni ci portano a un altro uomo e a un altro luogo, un giardino. L’uomo è Adamo, che però soccombe alla tentazione. Nel suo caso, il Tentatore sollecita l’orgoglio e la presunzione: “Sarete come Dio”, sarete il dio di voi stessi, non avete bisogno di tutele, sapete che cosa è bene e male per voi, senza che qualcuno ve lo dica. La tentazione, proposta a Gesù, è solo apparentemente diversa: in realtà, ne è l’altra faccia. “L’empio pensa: Dio non c’è”, così inizia il Salmo 14. Non è una professione di ateismo teorico, ma la dichiarazione che Dio non ha potere, o interesse a intervenire nella storia umana, che così diventa libero campo per l’ingiustizia e l’oppressione dei miseri. Ma le stesse parole possono essere usate dai poveri e dagli oppressi, con l’accusa dolorosa, “Sorgi, Signore Dio, alza la tua mano, non dimenticare i poveri!” (Sal 10,12). Tra loro c’è anche il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Oltre al misero e all’empio, c’è però una terza categoria, quella forse più numerosa, quella dei rassegnati. Il male odierno sta rivelando la sua forza pervasiva, al punto che nessuno può proclamarsi innocente; ci sono diversi livelli di complicità ma, soprattutto, ci sentiamo prigionieri di meccanismi ben più forti di noi, ai quali ci sembra di non essere in grado di resistere, né riusciamo a immaginare come contrastarli. Questo vale anzitutto per la guerra, che distrugge i corpi e ammorba le coscienze.

Da tempo, mi chiedo come resistere. Non mi basta la denuncia, pur doverosa, di una violenza senza prospettive e sempre più “sproporzionata”, secondo l’espressione del card. Parolin.

Per me, sono importanti due cose. La prima, è parlare e agire, riconoscendo a tutti gli attori di queste tragedie la dignità di figli di Dio. Questo può avvenire in diversi modi, per esempio accogliendo e incoraggiando chi, in Ucraina e in Terrasanta, riesce ancora a pronunziare la parola “pace”, e chi non si rassegna a portare un contributo all’odio ormai pervasivo. Non è cosa da poco rifiutare logiche razziste, come se l’altro non appartenesse all’unica comunità umana, ma fosse un alieno, un mostro, privo di diritti, un nemico della felicità dei giusti. Anche di fronte al dramma delle migrazioni, è necessario trovare sempre di nuovo delle motivazioni per una solidarietà senza frontiere.

In secondo luogo, credo sia necessario, oltre che molto sano, che ciascuno di noi si senta responsabile del suo “oggi”. Esso non è uguale per tutti e non può essere ripetuto per imitazione. Non è neppure sempre uguale, ma si modifica e cresce in noi, nonostante le obiezioni delle nostre paure e delle nostre pigrizie. Per evitare l’arbitrio e l’inganno, sono importanti due criteri; anzitutto, il confronto con una comunità: guai ai navigatori solitari. In secondo luogo, che le nostre azioni contribuiscano alla pace, al disarmo dei cuori là dove viviamo, dalla famiglia al lavoro, all’impegno per il bene comune. Su questo, è necessaria una grande vigilanza, ma alla pace ci guida l’obbedienza e la consegna alla volontà di Dio. Vi è una promessa, rappresentata dalle belve feroci, che circondano, pacificate, il Figlio dell’Uomo nel deserto. Non mancheranno neppure gli angeli, custodi del cammino di noi, loro fratelli minori, come lo fu Raffaele per il piccolo Tobia.

 

18 febbraio 2024                                                                                         don Giuseppe Dossetti