204^ lettera alla comunità al tempo della conversione

          Verso la fine del Settecento avanti Cristo, l’esercito assiro invase i territori tra il fiume Eufrate e il Mar Mediterraneo. I piccoli regni locali vennero spazzati via, da una potenza considerata la più violenta e crudele della regione. Le città che non si sottomettevano venivano rase al suolo, come era successo a Samaria, capitale del regno delle tribù settentrionali. Gerusalemme e il regno meridionale di Giuda temevano che ora sarebbe toccato a loro. La reazione del re e del governo fu di aumentare le difese delle città; il popolo se la prese con Dio. Infatti, dalla divinità che altro si aspetta, se non la protezione dei suoi devoti? La sconfitta, la crisi economica, l’ingiustizia sociale sembrerebbero smentire il dominio di Dio sulla storia.

          Il pensiero dei profeti è diverso, molto articolato e, a mio parere, molto attuale. Lo troviamo espresso dai grandi profeti, in particolare Isaia, Geremia e Ezechiele.

          Anzitutto, essi indicano la causa della crisi nell’infedeltà del popolo, nell’idolatria: gli idoli sono lo strumento, con il quale l’uomo pensa di manipolare il divino. Si tratta quindi, in definitiva, di un atto di superbia. Da esso, deriva l’ingiustizia sociale e la politica vista come un semplice rapporto di forze. Il Dio di Israele non è impotente, per chi sa leggere gli avvenimenti. L’invasione assira è un appello a riflettere, a non essere superficiali, a riconoscere le proprie responsabilità, a cambiare vita, a sanare le ingiustizie. L’esempio di un culto ipocrita, è quello narrato nel cap. 34 di Geremia. In occasione di una puntata delle truppe babilonesi, i capi di Gerusalemme accettarono, come segno di conversione, di accordare la libertà agli schiavi; ma quando le truppe nemiche si allontanarono, fecero carta straccia dell’impegno pattuito e si ripresero gli schiavi.

          Torniamo all’invasione assira. Il profeta Isaia, lo stesso che aveva rimproverato a Israele i culti idolatrici, pronunzia un oracolo contro l’Assiria: “Quando il Signore avrà terminato tutta la sua opera sul monte Sion e a Gerusalemme, punirà il frutto orgoglioso del cuore del re d’Assiria e ciò di cui si gloria l’alterigia dei suoi occhi. Poiché ha detto: <Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente. Come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra. Non vi fu battito d’ala, e neppure becco aperto o pigolìo>. Può forse vantarsi la scure contro chi se ne serve per tagliare o la sega insuperbirsi contro chi la maneggia? Perciò il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste contro le sue più valide milizie” (Is 10).

          Dio usa lo strumento del nemico per esortare alla conversione; ma lo strumento ha i suoi obiettivi di potere, quindi cade nel peccato di superbia, tanto quanto Israele. Per questo, sarà punito (2Re 18-19).

          La storia si ripete oggi, anche se dobbiamo evitare concordanze artificiose. Dobbiamo però riconoscere che i lutti dovrebbero avere un valore pedagogico. Anzitutto, dovremmo riconoscere il peccato di superbia e le sue conseguenze di ingiustizia e prevaricazione sui poveri. Dovremmo rinunciare a interpretare l’attuale situazione in modo puramente politico e militare. Dovremmo assolvere Dio dall’accusa di non essere presente nella storia, dal momento che non vogliamo leggerla dal suo punto di vista. Dovremmo credere che una soluzione ai conflitti e alle ingiustizie c’è sempre e passa all’interno dei nostri cuori.

21 luglio 2024                                                                                         don Giuseppe Dossetti