“LA FERITA”


194^ lettera alla comunità al tempo della conversione

Uno dei testi più affascinanti della Bibbia è il capitolo quindicesimo del Vangelo di Giovanni, che si apre con la similitudine della vite e dei tralci: “Come il tralcio non può portare frutto se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”. La conseguenza è che “senza di me non potete fare nulla”. In altre parole, Gesù propone un rapporto intimo con la sua persona: in sette versetti, ricorre nove volte il verbo “rimanere”, che esprime questo rapporto “fisico” e trasformante, una comunione di vita che precede ogni azione, anche quella più nobile come l’amore. Prima dell’amore per il prossimo, c’è l’amore del quale siamo fatti oggetto: “Rimanete nel mio amore”, in quell’amore col quale “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19).

Questo primato della persona di Gesù rispetto al suo messaggio è alquanto imbarazzante, in questa epoca di “secolarizzazione”, che continua ad apprezzare il messaggio cristiano, salvo poi disattenderlo, quando richiede una seria messa in discussione, dal pagamento delle tasse al rifiuto della guerra.

Non solo la religione, ma anche l’amore viene relegato nella sfera privata. Forse è per questo che stanno diminuendo la frequenza alla Messa e la richiesta dei sacramenti, a cominciare dal Battesimo e dal Matrimonio. La Chiesa e il suo apparato di credenze e di riti rischiano di sembrare una sovrastruttura, un involucro simbolico, una bella favola. In più, qualche volta le nostre comunità sembrano dare il loro contributo a questa tendenza. Per esempio, nell’esperienza concreta della celebrazione, talvolta la prima parte della Messa, la “Liturgia della Parola”, sembra sommergere la seconda, la “Liturgia Eucaristica”, che sarebbe in realtà la più importante. Come si spiega questo pudore, di fronte a parole come “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, versato per voi”?

Non si tratta di qualcosa di completamente nuovo. Quando Paolo di Tarso è invitato a tenere una conferenza all’università di Atene, finchè tratta argomenti filosofici e morali, lo stanno a sentire, ma quando afferma che la risposta alle domande e alle necessità più profonde dell’uomo è la risurrezione di un rabbino ebreo crocifisso, “alcuni si misero a ridere, altri dicevano: Su questo ti sentiremo un’altra volta” (Atti 17,32).

Possiamo tentare un’interpretazione: l’amore imbarazza chi pensa di non averne bisogno. Se poi l’offerta dell’amore viene da uno che si propone, dicendo “senza di me non potete fare nulla”, allora anche i poveri protestano, chiedendo che cosa può dire il Vangelo a chi ha fame o a chi è malato.

Forse dovremmo conoscere di più l’amore, la sua natura e le sue leggi. Sant’Agostino ne parla così: “Ubi amatur, non laboratur; et si laboratur, ipse labor amatur”, quando si ama non si fa fatica; e se si fa fatica, si ama quella fatica. Nell’amore, non si può restare al punto di partenza e neppure dare dei limiti: per questo, nel matrimonio si osa dire che la promessa è per sempre. Ma, ancora una volta, Gesù afferma di essere l’inizio e il garante dell’amore: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”(Gv 15,16).

Se l’amore fosse soltanto un moto dell’anima, l’espressione di un “voler bene”, in uno scambio di affetti, forse sarebbe comprensibile la riservatezza. Ma noi siamo stati gettati in pubblico, ben oltre la nostra volontà: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”. Di quale amore si tratta? “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (Gv 15,12s.). La Messa ce lo ricorda: ci conforta e ci ferisce, perché ci chiede di andare oltre i nostri limiti e le nostre paure. Ma proprio in questa fatica sta la gioia.

05 maggio 2024                                                                                       don Giuseppe Dossetti