L’ ALBERO CAPOVOLTO – 64^lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Un giorno, andò da Gesù il padre di una bimba gravemente ammalata, a supplicarlo di venire a guarirla. Mentre erano in cammino, arrivarono da casa alcuni a dire al padre: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?”

Forse anche noi, in questi mesi, abbiamo sentito la morte come qualcosa di definitivo, irrimediabile. Anche la preghiera fa fatica a varcare il confine della nostra storia quotidiana. Che cosa ci sia oltre la soglia, ci è ignoto. Come quel povero padre, anche noi siamo sollecitati ad accettare l’inevitabile, quando anche Dio sembra ritirarsi nel suo cielo.

Gesù ha ascoltato le parole dei messaggeri, si rivolge all’uomo e gli dice: “Non temere, soltanto abbi fede”. Ancora più esplicitamente, alla folla che è venuta alla casa della morta, dice: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Non ci suona strana la reazione degli astanti: “Lo deridevano” (Mc 5,40).

Anche queste brave persone, questi amici di famiglia, pensano che la vita vera sia quaggiù. Forse anche noi sacerdoti usiamo parole convenzionali, quando visitiamo i luoghi del dolore. Eppure, la fede che abbiamo ricevuta dalle generazioni che ci hanno preceduto continua a entrare nei nostri pensieri, nel linguaggio stesso. Il luogo dove seppelliamo i nostri morti, si chiama cimitero: è una parola greca, “koimitèrion”, che vuol dire alla lettera “luogo dei dormienti”.

Dunque, anche a noi Gesù rivolge le parole che ha pronunciato, di fronte all’annunzio della morte della bimba: “Non temere, soltanto abbi fede”. Fede in che cosa? Un ebreo sa come rispondere. La fede non è puramente l’atto del fidarsi, la fede “cieca”, ammirevole e irrazionale; la fede di Israele è la certezza che Dio è fedele all’alleanza, che ha stretto con Abramo e la sua discendenza, “per sempre”, come dice Maria nel suo Magnificat. Gesù traduce tutto questo in una parola, “Padre”. La paternità è un evento irreversibile e, nel caso di Dio, è la sua più profonda realtà: egli non può ammettere il nulla per coloro che ama. Anche la morte diventa parte di questo rapporto: essa è una sfida rivolta all’uomo, certamente. Ma la sfida è rivolta anche a Dio: “Riesci ad essere presente anche in questa estrema solitudine e desolazione?”. La sfida è talmente seria, che non può essere vinta se non trasformando la morte nell’atto supremo della comunione: questo è precisamente ciò che succederà alla porta di Gerusalemme, “sotto Ponzio Pilato”.

Perché non accettiamo la morte? Tra le tante ragioni, c’è anche la dolorosa sensazione che la vita sia stata infeconda, sterile. Forse, è anche per questo che la morte di un giovane colpisce più di quella di un anziano. Ma da cosa dipende la fecondità? Essa non va valutata con il metro del piacere, come se la vita feconda fosse quella piena di esperienze, di soddisfazioni, di successi. Il piacere genera spesso dipendenza, più si mangia, più si diventa famelici; oppure, se mancano i mezzi e le forze, ci si chiude in una rancorosa passività.

La fecondità, secondo Gesù, non ha graduatorie. Alla fine della parabola dei talenti, il padrone ha per i servi fedeli le stese parole per tutti: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto: entra nella gioia del tuo padrone” (Mt 25,21.23). Osserviamo che c’è una sola vita, non una prima e una dopo la morte, perché c’è un unico padrone: è lui che assegna il lavoro, è lui che lo valuta, è lui che premia. C’è un compito da portare a termine, ma il suo valore viene misurato dalla fedeltà. Il risultato degli sforzi del servo è sempre “poco”, soprattutto se rapportato al premio, la gioia della comunione con il padrone buono. Sarà comunque lui a usare le nostre fatiche, il nostro impegno; ma anche a dare significato e importanza alle nostre sofferenze e ai nostri apparenti insuccessi. La morte è incontro, consegna: ma è anche certezza che la fecondità continua, anzi, diviene più grande, perché la gioia del Padrone è aperta, inclusiva. La Chiesa è come un albero capovolto: le sue radici sono in cielo e i suoi frutti nutrono i pellegrini, in quella mirabile comunione, nella quale i fratelli maggiori, quelli che sono già arrivati, i santi, i nostri morti, non si stancano di incoraggiarci e di sostenerci.

27 giugno 2021                                                                    don Giuseppe Dossetti