201^ lettera alla comunità al tempo della conversione

La critica razionalista alla religione ne vede l’origine nella paura della morte e nella necessità di immaginare una compensazione, nell’aldilà, per le sofferenze e le ingiustizie subite nella vita terrena.

               In realtà, sembra che le cose stiano diversamente. La critica materialista può valere forse per la filosofia di Platone e per quanti si riferiscono a lui; ma certamente non per la visione di Omero. Ulisse deve scendere nel regno dei morti, per essere informato sul ritorno ad Itaca. Le anime acquistano una provvisoria e pallida esistenza, bevendo il sangue degli animali sacrificati; fra di esse, c’è quella di Achille. Ulisse gli dice di ammirare la deferenza delle altre anime di eroi per colui che già in terra era il più valoroso di tutti. Al che, Achille risponde: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezze, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte”.

               Anche per Gesù la morte ha un peso intollerabile: egli piange sull’amico Lazzaro e, di fronte alla propria morte, suda sangue nell’Orto degli Ulivi. In tutta la sua vita non nega il carattere drammatico e doloroso dell’esistenza umana, anzi, non si sottrae all’onda di sofferenza che lo travolge: non solo si lascia toccare, adunghiare, ma lui stesso tocca i poveri corpi malati o feriti. La sua risposta al dolore umano è la compassione, il “patire con” di Dio, che egli rappresenta.

               La parola che tutto riassume è “comunione”, cioè un rapporto stabile, definitivo, come definitive sono nascita e morte. La novità di Gesù rispetto a Omero non è la negazione del carattere doloroso della morte ma nel farla diventare il compimento, la forma suprema della fede, dell’abbandono alle braccia di un padre. Infatti, quel testo straordinario che è la Lettera agli Ebrei dice che Gesù “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza  da ciò che patì” (5,8).

               Nella vita di Gesù si vede come la fede prevalga sull’etica. Certo, Gesù non è venuto ad abolire la Legge di Mosè, ma a darle pienezza (Mt 5,17); questa pienezza è l’obbedienza fino alla morte. Non esiste il comandamento della morte, ma la morte può essere il prezzo, anzi, la forma suprema della fede. La fede è anche un percorso. Essa inizia con l’incontro con la persona di Gesù. Egli guida a vivere la vita come comunione, a leggerla come “discepolato”. Infatti, la sua richiesta è sempre: “Seguimi!”

               Questa richiesta ha un duplice significato. Anzitutto, unifica i tempi della vita, li concentra nell’oggi. Il passato non opprime, tutto può ricominciare. Il futuro si rende presente, non è impedito dalla barriera della morte, perché la comunione con il Cristo e con il Padre non può essere l’esperienza di un momento, ma necessariamente è per sempre. Per questo, quando risuscita la bambina, figlia del capo della sinagoga di Cafarnao, Gesù dice ai genitori; “Vostra figlia non è morta, ma dorme”Mc 5,39).

               In secondo luogo, sofferenza e gioia non si escludono. ”Certo –dice l’apostolo Pietro- dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove”. Si tratta però di una purificazione, che rende il rapporto con Gesù più ardente, cosicchè “esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede, la salvezza delle anime” (1Pt 1,6-9). Questa salvezza è ancora una volta la partecipazione al cammino di Gesù.

               Non si dica che il Vangelo esorti all’indifferenza verso la storia, anzi. La guerra vorrebbe essere il trionfo di una diabolica volontà di morte. Il Cristo è però presente, anche e soprattutto lì, dove la croce di Dio e la croce dell’uomo si congiungono. Un giorno, si dovrà ricostruire su quelle macerie. I costruttori di pace saranno quelli che il libro dell’Apocalisse descrive come “coloro che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7,13), coloro che “hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello” (12,11), l’Agnello di Dio, Gesù, che assorbe in sé il male del mondo e continua a dire ai suoi, come a Giairo, il papà della bimba, anche di  fronte all’evidenza della morte, “Non temere: soltanto, abbi fede”.

               30 giugno 2024                                                                               don Giuseppe Dossetti