Tempo fa, fummo chiamati da una scuola a tenere una conferenza ai genitori degli alunni sulla nostra esperienza al CeIS. Nel dibattito, una mamma disse: “Non mi sembra giusto che imponiamo  ai nostri figli un nome scelto da noi;: dovrebbero essere loro a deciderlo”. L’affermazione è molto interessante. Ci sarebbero delle difficoltà pratiche: per esempio, mi chiedo come mi rivolgerei a mio figlio fino al momento della scelta. Ma che non si tratti di qualcosa di banale, lo dimostra il fatto che i nostri nomi hanno all’origine un significato. Per esempio, esprimono un augurio: Cleopatra, vuol dire “di nobili natali”; oppure, fanno riferimento a un fatto o a una caratteristica della famiglia. E’ noto che san Francesco venne battezzato col nome di Giovanni, ma suo padre, quando tornò da un lucroso affare in Francia, volle dare al bambino un nome che ricordasse u episodio importante per la famiglia.

              Diciamo allora che il nome, non solo ci rappresenta, ma contiene in sé la nostra storia, quella presente, ma anche quella che costruiremo. Esso è strumento e memoria di un incontro, meglio ancora, di un inizio, di una nascita. Esso ci permette di appartenere a una comunità. Resta il fatto che ci viene “imposto”: all’origine, c’è un atto di autorità. Ma dovremmo piuttosto dire che esso rappresenta un dono. Quando un papà o una mamma “chiamano per nome” il loro bambino, lo aiutano a uscire dal buio del non-essere, lo confermano e lo accompagnano nella costruzione della sua identità.

              La cosa paradossale è che quanto si è detto vale anche per Dio. Molto spesso, si sente dire: “Io credo che ci sia qualcosa di più grande”, come un mistero che ci circonda. La divinità è presente, ma è sconosciuta, non ha un nome. Per questo, è molto significativo l’episodio del Vangelo, nel quale Gesù chiede ai suoi discepoli di dargli un nome: “Voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Conosciamo la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Non si tratta di un esame di catechismo, ma dell’umiltà di un Dio che vuol essere chiamato per nome, che vuole appartenerci, che bussa alla porta della nostra mente e del nostro cuore: “Chi sono io per te?”. Ci sono le risposte della gente: Gesù è un profeta, un personaggio importante; ma non basta. Gesù vuol essere per Pietro l’unico, come unico è lo sposo per la sposa, come unico è il padre o la madre per il figlio.

              Forse, l’immagine nuziale è quella più pertinente. A Cesarea di Filippo, è come se si celebrassero delle nozze, qualcosa di irrevocabile e generativo. Lo percepivano anche i pagani; la formula nuziale era: Ubi tu Caius, et ego Caia. Dove sarai tu, lì ci sarò anch’io. Ancora più toccante è la formula cristiana: “Io, Giuseppe, accolgo te, Maria, come mia sposa”. Con quanta trepidazione viene pronunziato il nome della persona amata, con quale riconoscenza si afferma che essa è un dono, non una proprietà!

              In Gesù, Dio porta a compimento le sue nozze con l’umanità. Dopo che Simone, figlio di Giovanni, ha pronunziato il nome con il quale Dio vuole essere invocato, allora anch’egli riceverà il suo nuovo nome, Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. In questo nome, c’è una promessa: “Questa Chiesa, questo popolo è mio e proprio per questo le potenze infernali non prevarranno, perché io veglierò, anzi, perché la mia fedeltà giungerà al punto di dare la vita su una croce, e questo vi permetterà di ricominciare sempre, qualunque cosa succeda”.

              Pensiamo alla gioia di Pietro, nell’udire il proprio nome pronunziato come una promessa. Anche Maria Maddalena udrà pronunziare il suo nome, la mattina di Pasqua. Ella aveva scambiato quell’uomo per il custode del giardino, ma quando egli l’ha chiamata, “Maria!”, allora tutto è ricominciato, per non finire mai più. Anche noi siamo chiamati per nome, e siamo sollecitati a dare un nome a quel “Tu”, che, malgrado tutto, ci dice: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”, dice nel libro dell’Apocalisse (3,20).

 

27 agosto 2023                                                                                     don Giuseppe Dossetti