162^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus, della guerra, del terremoto e dell’alluvione.
Una delle parabole più famose di Gesù è quella del seminatore. Sembrerebbe un incompetente, questo contadino, che sciupa del seme, gettandolo sulla strada o sui sassi o in mezzo alle erbacce. Ci viene spiegato, però, dallo stesso Gesù, il significato simbolico. La strada, dove subito gli uccelli mangiano ciò che è stato seminato, sono quelli che proprio non ascoltano. Invece, i sassi, dove si annida il calduccio del sole, sono quelli che accolgono con entusiasmo la parola del Maestro di Nazaret, ma non hanno profondità: non sono capaci di disciplina e di sacrificio, basta poco perché rinunzino ai buoni propositi. Il simbolo delle erbacce è quello che mi colpisce di più: “sono coloro che ascoltano la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto” (Mt 13,22). Per fortuna, il contadino non sbaglia del tutto la mira e il seme caduto nel terreno buono produce un raccolto eccezionale, che compensa la perdita iniziale e arricchisce il padrone del campo.
Spiegando la parabola ai bambini, ho fatto loro l’ovvia domanda: chi è ciascuno di noi, tra questi quattro terreni? Mi aspettavo una risposta convenzionale, ma un bimbo ha detto: Noi siamo tutti e quattro i personaggi della parabola. Grandioso! Ripensandoci, mi pare che il piccolo abbia colto l’intenzione di Gesù, che non è quella di classificare le persone, ma di aiutarci a vivere la nostra storia spirituale.
Il primo passo è certamente un serio esame di coscienza e la sincerità verso noi stessi. Di fatto, è sempre possibile che noi non ascoltiamo e soprattutto non ci ascoltiamo, che trascuriamo quello che la nostra coscienza ci dice, che viviamo perennemente fuori di noi stessi. Così, è sempre possibile, fino al giorno della nostra morte, che prevalgano le paure, i compromessi, le piccole disonestà. E, infine, è sempre possibile che le cose del mondo ci affascinino o che le preoccupazioni ci impediscano di guardare alla realtà con speranza.
Essere onesti con se stessi è il punto di partenza; non cercare scuse e riconoscere i nostri sbagli e le miserie, piccole o grandi, alle quali siamo esposti, fa parte di un cammino di salute mentale. Ma non dobbiamo abbatterci: infatti, non è umiltà rassegnarci ai nostri difetti. Come non dobbiamo classificare gli altri uomini, così non dobbiamo considerarci irrimediabilmente facenti parte di qualche categoria che la sociologia, anche religiosa, può descrivere. E’ sempre possibile ricominciare: Gesù è venuto ad annunciare la libertà, non la rassegnazione. L’intenzione della parabola è espressa dal raccolto finale, straordinario, che risarcisce ogni perdita.
In prospettiva, noi riconosciamo uno dei temi maggiori della predicazione di Gesù: l’annuncio del perdono, offerto a tutti; “Non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17). Questo perdono è creativo, libera le energie buone dell’uomo; ne fa non soltanto un membro del Regno, ma un fermento della comunità: l’intelligenza stessa trova nuove vie e la volontà si rafforza.
“Per coloro che fanno opera di pace viene seminato un frutto di giustizia nella pace”, scrive l’apostolo Giacomo (Gc 3,18). La pace viene dall’alto, viene seminata dal divino Seminatore: il terreno che l’accoglie deve essere operatore di giustizia. Tale giustizia non è però la giustizia retributiva (“a ciascuno secondo le sue opere”) e neppure giustizia distributiva (“parti uguali per tutti”), ma è la giustizia che viene dall’alto, il dono gratuito di un nuovo inizio, che il Seminatore osa regalare a tutti, senza far conto di meriti e senza stancarsi per i molteplici rifiuti che egli subisce. La pace comincia da noi, nel senso che ognuno deve guardare se stesso e lasciare che entri in lui il divino seme, grazie al quale tutto è possibile, anche la pace tra Russia e Ucraina.
16 luglio 2023 don Giuseppe Dossetti