Gesù usa spesso, per sé e i suoi discepoli, l’immagine dell’agnello e del pastore. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Mt 10,18); “Io sono il buon pastore” (Gv 10), che dà la vita per le sue pecorelle, mentre il mercenario scappa e le lascia in balia delle fiere. Come il pastore buono, egli va in cerca della pecorella perduta, la prende in braccio e la cura con tenerezza (Lc 15).
Si tratta però di capire quanto la dolcezza e la poesia di queste parole abbiano corso di validità nell’attuale situazione di guerra. Fra l’altro, sembra che le stesse pecorelle non credano molto al loro pastore. Addirittura, si cerca spesso di arruolarlo, ciascuno nel proprio campo. Questo è capitato tante volte nel corso dei secoli e anche oggi è sotto i nostri occhi.
Qui si vede bene che la religione non ha una dimensione individualistica e privata, ma che ha un influsso potente sulle vicende della grande storia. La divisione tra i cristiani non è stata la causa delle guerre dell’ultimo secolo, ma certamente ha contribuito a creare un’atmosfera, a radicalizzare posizioni che favorivano e tendevano a giustificare la violenza. Papa Francesco, proprio in questi giorni, parlando al Consiglio per l’Unità dei Cristiani, ha sottolineato: “La consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male, che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie, aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita”.
Oggi, siamo daccapo. La cosa è particolarmente evidente per il mondo ortodosso, drammaticamente frammentato in varie obbedienze. La Chiesa russa sta vivendo una delle sue epoche più buie: il Patriarca Kirill si è espresso in modi talmente non evangelici che molte comunità russe stanno abbandonando l’obbedienza a Mosca. E’ molto bella la critica che è venuta da sessantacinque teologi ortodossi di tutto il mondo, in un documento del 13 marzo: “Noi condanniamo come non ortodossa e rifiutiamo qualsiasi dottrina che intenda subordinare il Regno di Dio, manifestato nell’unica Santa Chiesa di Dio, a qualsiasi regno di questo mondo, cercando altri padroni ecclesiastici o laici, capaci di giustificarci o di redimerci … Rimproveriamo tutti coloro che sostengono il cesaropapismo, sostituendo la loro obbedienza ultima al Signore crocifisso e risorto con quella a qualsiasi leader investito di poteri di governo, che si dichiari l’unto del Signore, sia esso conosciuto col nome di Cesare, Imperatore, Zar o Presidente”.
Il “cesaropapismo” è quella prassi, antica come Costantino, di reciproco appoggio tra trono e altare: il Cesare di turno protegge la Chiesa e la colma di favori, e in cambio la Chiesa sostiene lo Stato, conferendogli un carattere sacrale. In questo modo, però, la Chiesa perde la sua forza profetica e la sua libertà.
Tuttavia, l’Occidente ha, esso pure, molti atteggiamenti da rivedere. In particolare, i cristiani delle nostre parti fanno fatica a sentirsi “stranieri e pellegrini in questo mondo” (1Pt 2,11) e rischiano di assorbire i modi di ragionare mondani, in particolare il nazionalismo e l’incapacità di essere critici nei confronti delle svariate idolatrie contemporanee.
Quale può essere il rimedio? Sta scritto: “Le mie pecore ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16). L’unità nasce dall’ascolto: ascolto di una parola che riconosciamo vera, anche se mette in discussione i nostri modi di vedere. La frammentazione si ha, invece, quando ascoltiamo soltanto noi stessi. Può darsi che le parole umane abbiano apparenze seducenti. Non per nulla esiste la professione di influencer: si fa leva sulle passioni, le voglie, gli appetiti, le paure dell’uomo, piuttosto che cercare la verità. Eppure, sta scritto anche che solo “la verità vi farà liberi”(Gv 8,32).
Per il vangelo, la verità si conosce soltanto se ci si mette al seguito di Gesù. L’ascolto esige un movimento, quindi, un rischio. Il rischio del discepolo è il dubbio, la tentazione di non essere agnelli, ma di competere con i lupi. Su questo, però, Gesù non fa sconti, ma offre una promessa a prima vista paradossale: “Io do alle mie pecore la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. E questo, perché? Perché “il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre (Gv 10,28s.).
La guerra è intrinsecamente atea, perché il suo presupposto è che Dio sia estraneo alla storia, che essa sia proprietà dell’uomo, cioè del più forte. Io chiedo per me il dono di ascoltare la voce del buon Pastore. Egli ci ha dato il criterio: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”(Gv 10,11); e dice anche: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti” (10,9).
08 maggio 2022 don Giuseppe Dossetti