“GRAZIA E PACE”


213^ lettera alla comunità al tempo della conversione

               Se vogliamo portare la pace agli altri, dobbiamo essere in pace con noi stessi. Se vogliamo essere in pace con noi stessi, dobbiamo riconoscere le nostre debolezze e i nostri errori. Se vogliamo riconoscere le nostre debolezze e i nostri errori, dobbiamo sentirci amati. Se vogliamo sentirci amati, dobbiamo fare l’esperienza della grazia, cioè di ricevere un amore gratuito, che non dipenda dai nostri meriti e dalle nostre qualità. Chi fa l’esperienza della grazia, si sente in debito verso ogni uomo, perché ha trovato il fondamento della fraternità e dell’uguaglianza: nessuno è superiore agli altri, nessuno mi è estraneo, perché verso tutti io sono debitore per quello che ho ricevuto.

               Immaginiamo la vita dell’uomo come un paesaggio: ciascuno di noi è al centro di un immenso cerchio, un orizzonte, all’interno del quale si collocano le esperienze, le gioie, i dolori … tutto quello che forma il tessuto della nostra vita. Ci sono due possibilità. La prima, che l’orizzonte sia tempestoso e nubi minacciose si dirigano verso di noi, per occupare il nostro spazio vitale. Noi però abbiamo la tempra del lottatore e cerchiamo di difendere il campo trincerato che abbiamo costruito con tanti sacrifici. Magari, in mezzo alla tempesta, bussano al cancello degli sconosciuti, che implorano di essere accolti. E’ probabile che diciamo loro che non c’è posto: peggio per loro, se non sono stati previdenti come noi, che abbiamo tenuto d’occhio l’approssimarsi della tempesta. Non c’è grazia, in una simile città dell’uomo.

               E’ possibile, invece, che in un’altra città ci sia una torre, sulla quale si avvicendano le sentinelle. La tempesta infuria, aggredisce gli spalti, altri uragani si scorgono nell’immensa pianura. Ma la sentinella ha un messaggio, per chi combatte alle mura: lontano, all’orizzonte, si scorge il sereno, squarci d’azzurro si allargano tra le nubi; vale la pena resistere e anche mandare messaggi alle altre città, per sollecitarle a guardare anche loro l’orizzonte, che annuncia il sereno.

               Questa piccola parabola vuole esortarci a chiederci quale sia il nostro orizzonte, il che equivale a chiederci che cosa ci sia nel nostro cuore. A sua volta, questa interrogazione ci porta a incontrare Dio. E’ inevitabile, che questa domanda si proponga, anche a coloro che non lo riconoscono: anche loro sono saliti sulla torre e hanno scrutato il cielo e hanno concepito nel cuore un messaggio da portare ai cittadini. Certo, bisogna fare la fatica di salire la torre: chi rimane a terra, non ha nulla da dire.

               La parola “grazia” viene usata dall’angelo Gabriele quando saluta Maria a Nazareth: “Saluto te, che sei oggetto dell’amore gratuito, della grazia di un Dio che vuole essere l’ Emmanuele, che significa “Dio con noi”. Ma questa grazia è esigente e dolorosa; Maria comprende che le viene rivolta la stessa richiesta fatta ad Abramo, di uscire dalla sua terra, di fidarsi della promessa, anche quando vede il figlio appeso a una croce. Abramo tace, mentre sale il monte del sacrificio; così pure Maria non parla: i vangeli non riferiscono il pianto, il grido, che i pittori rappresentano in tante immagini della crocifissione. Abramo e Maria parlano a se stessi, ascoltando l’angoscioso “perché” che sale dalle loro viscere,e rispondendo che altro non si può chiedere se non che sia fatta la volontà, tutta intera, di colui che apparentemente si sottrae ma che forse proprio in quel momento raggiunge ogni uomo, per quanto il suo orizzonte sia lontano.

               Ma per Maria, come per Abramo, c’è una parola che è più di una promessa, che è un dato di fatto, un’inevitabile conseguenza del sacrificio; “Nel tuo nome saranno benedette tutte le famiglie della terra”(Gen 12). Con una serenità che sempre mi sconvolge, Maria fa eco al suo progenitore: “D’ora in poi, tutte le generazioni mi chiameranno beata” (Lc 1,48).

               Beata è dunque Maria. Ma quale beatitudine, se il Figlio è davanti a lei, crocifisso? E’ la beatitudine che vede aprirsi il sereno per ogni uomo, che, come ogni maternità, nasce nel dolore, ma dà frutti di pace.

 

08 dicembre 2024                                                       don Giuseppe Dossetti