La guerra e la pandemia, non ancora debellata, continuano a rivolgerci una domanda, con una voce sempre più alta, ma non per questo ascoltata: che significato dare al dolore innocente?
La domanda non viene ascoltata, mi pare, perché esigerebbe come conseguenza uno sforzo enorme di conversione, un impegno straordinario per costruire la pace. Infatti, molte, troppe persone, e soprattutto governanti e responsabili dell’informazione, sembra siano convinti che, per vincere la guerra, siano necessari dei colpevoli. Anzi, dei colpevoli a senso unico.
Se consideriamo le guerre del secolo scorso e dello scorcio dell’attuale, esse hanno una caratteristica: si tratta di una contesa “metafisica”, per usare la parola del Patriarca Kirill di Mosca, cioè della lotta tra il bene e il male. Quante volte abbiamo sentito formule come “l’impero del male”, “gli stati canaglia”, la “crociata”. Al nemico viene tolta la dignità, egli diviene un agente di forze oscure e superiori. Con tragica ironia, si potrebbe dire che il diavolo, cacciato dalla porta del mondo illuminato dalla ragione, rientri dalla finestra della guerra.
Questa radicalizzazione ha una terribile conseguenza. Se l’avversario è un agente del Male con la maiuscola, allora la lotta contro di lui deve essere portata fino alle estreme conseguenze, fino alla sua distruzione. Non c’è spazio per il compromesso e la pace non può consistere in altro che non sia il suo annientamento.
Parlare di pace vuol dire invece ricuperare l’appartenenza all’unica famiglia umana e “ripudiare” la guerra, come dice la nostra Costituzione. Ripudiare non vuol dire soltanto rifiutare, ma darsi una disciplina, per non lasciarsi corrompere dalla convinzione idolatra che la guerra possa essere strumento idoneo a risolvere i problemi dell’umanità. Scriveva don Giuseppe Dossetti senior dalla Terrasanta, nel 1973, all’indomani dello scoppio della guerra del Kippur: “Ogni giorno si hanno nuove, dolorosissime prove che gli uomini – tutti, anche i migliori – non sanno vedere altro mezzo che questo, la guerra, mentre dovrebbe apparire chiarissimo a ognuno che questo mezzo è, al contrario, il solo che non risolve e non risolverà mai nulla e che lascerà tutto non come prima, ma infinitamente peggio di prima, con mali ancora più esasperati e con difficoltà ancora più insormontabili. Questa è una cosa tremendamente triste, che veramente pone un enorme peso sul cuore, quando ad ogni passo ci si incontra, anche nelle persone più rette e generose, in questa nefanda superstizione”.
Oggi, da quando le armi sono scese in campo, ogni discorso è più difficile, tranne uno, forse. Oggi, ci viene rivolta in modo più stringente, con l’evidenza del sangue, la domanda che si faceva all’inizio: che cosa dobbiamo ai morti, agli innocenti? Le immagini che ci vengono sottoposte, per dimostrare la malvagità del nemico, ci costringano invece a chiedere che cosa esige da noi tanta sofferenza.
Che cosa dobbiamo ai morti? Forse la vendetta, il sacrificio di altri morti? O non piuttosto la conversione, che sia anzitutto uno sforzo di purificazione dello sguardo e del cuore?
Si tratta di una via più difficile rispetto alla divisione del mondo in buoni e cattivi, ma è l’unica in grado di risanare e ricostruire. Ci può aiutare la certezza che il dolore innocente grida al cospetto di Dio, non per chiedere vendetta, ma perdono e grazia. Essi sono coloro che assorbono il male del mondo, partecipano all’opera del divino Innocente. Nella Pasqua ebraica è il sangue di un agnello che difende le case degli Israeliti dallo sterminio. Nella Nuova Alleanza, l’Agnello di Dio, Gesù, si carica del peccato del mondo, del peso schiacciante della violenza e dell’odio, e suda sangue sulla Pietra dell’Agonia.
Le folle di Gerusalemme, che hanno gridato il loro “Crocifiggilo” davanti a Ponzio Pilato, che hanno schernito il Crocifisso, ora, di fronte a quella morte, tornano a casa battendosi il petto (Lc 23,48). Prima di tutto, bisogna “battersi il petto”, riconoscere le nostre grandi o piccole responsabilità, restituire all’avversario la sua dignità di uomo – e lo strumento è anzitutto pregare per lui. Non ha detto Gesù: “Pregate per i vostri nemici”(Mt 6,44)? La via d’uscita dalla trappola creata dall’orgoglio dell’uomo non può essere se non quella dell’umiltà, e umiltà è anche chiedere luce giorno per giorno, lasciarsi guidare dalla voce che un cuore purificato riconosce in se stesso.
13 marzo 2022 don Giuseppe Dossetti