180^ lettera alla comunità al tempo della conversione
Epifania è una parola greca, che significa “manifestazione”. Chi si manifesta è Gesù e, di conseguenza, anche Dio. Il destinatario della manifestazione è anzitutto il popolo ebraico, rappresentato dai pastori di Betlemme; oggi, la manifestazione si estende a tutti i popoli, le “genti”, rappresentate dai magi, che arrivano a Gerusalemme con una domanda terribilmente scorretta; “Dov’è il re dei Giudei, che è nato dalle vostre parti?”. Ma che si tratti di un re straordinario, appare dallo scopo del viaggio, un viaggio lunghissimo da Babilonia, più di mille chilometri tra deserti e briganti: “Siamo venuti ad adorarlo”. Questo re è dunque un essere divino, per questi antichi saggi, astrologi che interrogano le stelle, che nella loro fissità parlano di un mondo sempre uguale. Ma a questi pellegrini la stella che hanno visto sorgere annunzia qualcosa di nuovo, una svolta, nella vita del mondo, e vale la pena di mettersi in cammino.
La reazione di Erode è ovvia: un re, in Israele, c’è già ed è lui; il pretendente, se veramente esiste, va soppresso. Gli specialisti delle Scritture e della religione, sono invece sprezzanti: sanno tutto, conoscono le profezie, ma non vale la pena andare a Betlemme, a soli otto chilometri di distanza, per verificare. I magi, invece, giungono alla meta, “con una gioia stragrande”, dice il testo.
Che cosa hanno visto? La rivelazione del “mistero”, così lo chiama Paolo di Terso, cioè del progetto che Dio ha tenuto nascosto in sé, che ha prefigurato tramite i profeti, e che oggi si rivela in quel bimbo. La volontà di Dio è di riunire tutti gli uomini in una comunione irrevocabile tra Lui e tutti gli uomini, che diventi comunione di tutti gli uomini tra loro: in altre parole, la pace, per sempre. Di quella pace è strumento quel bimbo, del quale viene detto: “A quanti lo hanno accolto è stato dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Figli, tutti. Tutti? Anche Erode, anche Putin, anche –lo dico tremando- anche Hitler?
I grandi criminali della storia sono portatori di una bestemmia diabolica: “Tu, Dio, hai fallito, perché l’uomo è capace di un male così grande che nemmeno Tu potrai perdonare. Anche tu dovrai rassegnarti a dividere gli uomini tra fedeli e infedeli e la religione diverrà il criterio per questa separazione, tra coloro che sono degni di te e coloro che non lo sono. I tuoi delegati useranno la religione come strumento in un tribunale, dove l’imputato, alla fin fine, sarai tu, che ti sei illuso di poter amare tutti gli uomini”.
Come sempre, anche in questo oltraggio, c’è un aspetto di verità. Un Dio potente si metterà in concorrenza con gli altri poteri di questo mondo, e gli uomini saranno divisi secondo criteri morali, politici, castali, razziali e anche religiosi. La religione, in questo caso, diventa fonte di divisione e di violenza. Invece, un Dio debole unisce. La debolezza di Dio che oggi si palesa nella mangiatoia di Betlemme, troverà pienezza nella croce. Quel sangue, dice Paolo, distrugge i muri (Ef 2,13s.): tutti responsabili, tutti graziati.
La Lettera agli Ebrei, uno dei testi più affascinanti del Nuovo Testamento, dice proprio così: “Conveniva infatti che Dio … rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza … (Egli), per questo, non si vergogna di chiamarli fratelli” (Ebr 2,10s.). Gesù non si vergogna di noi, anche se ne avrebbe tutti i motivi. Qualcuno continuerà a rinfacciargli che esagera nel suo amore per l’uomo, che questa è una favola bella per anime belle, e che l’uomo è homo homini lupus, una bestia crudele verso i suoi simili. Egli non risponde, ma allarga le piccole braccia da bimbo, le braccia insanguinate del crocifisso. Tocca a noi, eventualmente, di vergognarci, ma la vergogna può trasformarsi in fiducia, in umile preghiera e in un cammino di pace.
06 gennaio 2024 don Giuseppe Dossetti