L’anno della Chiesa volge al termine, qualche settimana prima dell’anno civile. Viene riproposto il tema della fine. Il nostro sentimento oscilla: da una parte, siamo ben consapevoli che tutte le cose sono fragili, noi prima di tutto. La morte verrà per ciascuno, anche se cerchiamo di dimenticarla. In questi anni di pandemia, la sua ala ci ha sfiorato, come pure ci inquietano le preoccupazioni per i conflitti, anche armati, le migrazioni, le preoccupazioni per l’economia e per l’ambiente. Dall’altra parte, in quasi tutti noi pulsa l’aspirazione di Prometeo, di costruire un mondo più ordinato, più vivibile.
Se interroghiamo il Nuovo Testamento, la parola di Gesù è chiara.
C’è un disordine, fonte di grande sofferenza e paura. La descrizione che ne fa il Vangelo è straordinariamente simile alle vicende attuali, e si riassume nella frase: “Le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte” (Mc 13,25). Ma la fine non sarà decisa dall’uomo, bensì dal Figlio dell’Uomo, nel giorno che nessuno conosce. La parola di T.S. Eliot, nella poesia The hollow men, gli uomini vuoti, che cioè il mondo “non finirà con uno schianto, ma con un lamento”, ispira il bellissimo romanzo di Nevil Shute, L’Ultima Spiaggia, ma non è la parola di Gesù. C’è uno spazio di responsabilità, per l’uomo, quindi, di libertà. C’è un disordine mondiale, che non potrà essere risanato da un grande progetto, come quello di Faust. Ma esiste una via alternativa ed efficace. Al disordine del mondo, siamo chiamati a opporre un ordine interiore, che si riassume in due verbi: vegliare e perseverare.
Prima di tutto, vegliare: anzi, alla lettera, cacciare la sonnolenza, la pigrizia morale, il pessimismo paralizzante. Vegliare, significa cercare di essere molto onesti con se stessi, riconoscere la propria identità. Non siamo padroni del mondo e della vita, ma non siamo neppure schiavi di oscure realtà, da noi suscitate ma che ci sfuggono di mano. Siamo dei servi, liberi servi di un padrone buono; anzi, siamo dei figli, che liberamente si mettono al servizio e che aspettano, però, la chiamata alla ricompensa, che è la gioia del loro Signore. In questa prospettiva, c’è spazio per l’impegno generoso, ma anche per l’accettazione della morte, che sarà consegna fiduciosa di noi stessi, senza rimpianti.
Lo strumento della veglia è la preghiera, il dialogo con Colui che è “intimo a noi più di noi stessi” (Agostino, Confessioni III,6,11), dialogo che è anche interrogazione e talvolta protesta, di fronte al male del mondo e alla sofferenza degli innocenti, ma che è anche appagamento e consolazione, qualora ci si metta di fronte alla croce del Figlio, così vicina alla croce di ogni figlio.
“Perseverare” è l’altro verbo. Un giorno, al nostro Presidente della Repubblica venne chiesto da un giovane perché un cristiano dovrebbe impegnarsi nella politica. Mattarella riconobbe le difficoltà e le delusioni che tale impegno porta con sé, ma disse anche che, se uno si sentiva chiamato, ne valeva la pena, però “con ostinazione”.
La via della “carità” è sempre aperta. Forse, il Presidente aveva in mente la frase di san Paolo (1Cor 13,7): “La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Sopportare ostinatamente e ostinatamente sperare sono le caratteristiche della perseveranza. Essa è feconda: non sistemerà il mondo, ma creerà spazi di sollievo, nei quali gli uomini si sentiranno riconosciuti nella loro dignità e forse anche incoraggiati a percorrere la stessa via.
L’ordine interiore dà una grande forza. Soprattutto, libera dagli idoli di questo mondo, dalle esigenze fasulle e dalla paura di non corrispondere alle esigenze dell’ambiente, il più delle volte di pura apparenza. L’ordine interiore deriva dal dialogo con Colui che ama le sue creature, continua a suscitare in esse il desiderio del bene e riserva a sé il giudizio, che sarà un giudizio di misericordia.
14 novembre 2021 don Giuseppe Dossetti