BARCONI E SOTTOMARINI – 77^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Questa domenica, viene letto nelle chiese il capitolo cinque della Lettera di san Giacomo. Egli era parente di Gesù e fu il capo della piccola comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Carattere forte, spirito concreto, egli scrive: “ E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce,i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”(Gc 5,1-6).

Ci piacerebbe liquidare queste parole come espressione di un pauperismo un po’ fanatico. Purtroppo per noi, le parole di Giacomo hanno riscontro nella nostra realtà, nella quale lo sfruttamento delle risorse del mondo ha raggiunto livelli tali da non creare neanche più scandalo.

La cosa più intollerabile, però, è che ai poveri viene attribuita la causa del disordine del mondo e l’origine dei pericoli per la sua stabilità. Se in un porto italiano attracca un barcone con cento disperati, che hanno rischiato la vita per fuggire da guerre e miseria, si trova subito chi grida contro l’invasione e il pericolo per la nostra sicurezza; ma se un giorno attraccasse uno dei sottomarini che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia costruiranno, con una spesa tra i cinquanta e i cento miliardi di dollari, il lungomare sarebbe pieno di gente e il comandante verrebbe intervistato, per convincere il pubblico che questi oggetti sono strumento di una pace, che non può essere se non armata.

Mi viene in mente la favola di Fedro, uno dei primi testi che studiavamo quando alle medie si insegnava ancora il latino: “superior stabat lupus”. La favola racconta di un lupo e di un agnello che si abbeverano allo stesso torrente. Il lupo accusa l’agnello di sporcare l’acqua che lui sta bevendo, anche se si trovava più in alto dell’agnello. Anche gli agnelli hanno i loro difetti, ma è scandaloso attribuire loro la responsabilità per i mali del mondo. Talvolta, sembra che la loro colpa non consista in quello che fanno, ma nel fatto stesso di esistere.

Come al solito, si tratta del peccato di Adamo, cioè della presunzione di essere padroni della nostra vita, della vita degli altri, del mondo e delle sue risorse. Padroni della vita e padroni della morte: aborto e ingegneria genetica diventano strumenti per decidere la vita degli altri; l’eutanasia ci illude di essere padroni della nostra morte. Non è strano, allora, che quello che sta in mezzo, tra la vita e la morte, diventi materia per la nostra insindacabile decisione. Dio è stato definitivamente cacciato dal suo trono, sul quale siede l’uomo. Ma quale uomo? non certamente il contadino indiano o il migrante al confine del Messico, bensì l’uomo superiore: si compie la divisione castale dell’umanità.

Dio non ha opposto resistenza a chi ha rifiutato il suo regno. Ha accettato di essere sbeffeggiato come un re da burla: “Se sei figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo”. I poveri hanno capito il perché di questa scelta. La conclusione del testo di Giacomo è volutamente ambigua, può applicarsi allo stesso modo al povero e a Gesù: “Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”.

Di fronte alla croce dell’uomo, ci sono ancora altri uomini che si battono il petto, come gli abitanti di Gerusalemme (Lc 23,48). Beati coloro che hanno il coraggio di dubitare, di essere sinceri con se stessi, di lasciarsi inquietare dalla sofferenza dell’uomo. Costoro non sono lontani dal regno di Dio (Mc 12,34).

A queste persone, è richiesto di dare testimonianza, non tanto con le parole quanto con uno stile di vita sobrio e ispirato a una convinzione profonda, quella di non essere padroni, ma amministratori. Dell’uso delle nostre ricchezze ci sarà reso conto: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando essa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Questi amici, sono i poveri che non avremo lasciato fuori dalla porta, come Lazzaro abbandonato tra i cani (Lc 16,19ss.).

Avremo peraltro una ricompensa anche in questa vita: ritroveremo tanti fratelli, saremo operatori di pace: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Liberati dalle paure e dai rancori, la nostra vita sarà più serena e aperta alla speranza, poiché l’eternità di Dio sarà entrata nel nostro tempo.

26 settembre 2021                                                              don Giuseppe Dossetti