“A QUALE SPERANZA SIAMO CHIAMATI”


Undicesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

                Non sopporto più il ritornello di questi mesi: “Andrà tutto bene”. Non è andato tutto bene per le famiglie degli oltre trentamila morti, solo in Italia, per il flagello del coronavirus. Ma, soprattutto, avverto in queste parole il desiderio di mettersi alle spalle un brutto periodo, dal quale siamo usciti, grazie alla medicina, grazie al distanziamento sociale o, più semplicemente, grazie alla fortuna. Insomma, archiviamo e dimentichiamo: ritorniamo a quel “bene”, che poi coincide con le nostre abitudini.

                Eppure, avevamo fatto dei buoni propositi, fino a qualche settimana fa. Avevamo plaudito a papa Francesco, che ci ricordava che “siamo sulla stessa barca” e che “non si può vivere sani in un mondo malato”. Credo, però, che questi pensieri siano chiusi in un cassetto della nostra memoria: dovremo, ogni tanto, aprirlo, con calma, senza proclami moralistici, ma resi più consapevoli e più responsabili.

                Per me, in questo momento, è molto importante la domanda: “A quale speranza siamo chiamati?”. San Paolo, nella seconda Lettura di oggi (Lettera agli Efesini 1,18), prega lo Spirito Santo perché “illumini gli occhi del nostro cuore”, così da trovare la risposta. Ci può essere speranza, di fronte a tanta sofferenza, a tante ingiustizie, a tanto indurimento del cuore, a tanta superficialità? Il mio compito istituzionale è di consolare, di aiutare a trovare un senso alla vita. Mi chiedo: non starò forse anch’io usando la religione come “oppio dei popoli”, una specie di droga per attutire il dolore, rinunziando nello stesso tempo a prendere una responsabilità nella storia?

                Ho trovato consolazione nella festa odierna, la “Ascensione di Gesù al cielo”. Dobbiamo però andare oltre le stupende immagini di Andrea Mantegna e del Perugino. Il “cielo” non è un luogo, ma è la dimensione di Dio. L’Ascensione significa la divinizzazione dell’uomo, l’uomo che raggiunge il compimento del suo più profondo desiderio, “essere come Dio”: ma non con la superbia e la rivendicazione di Adamo, bensì attraverso l’obbedienza del Figlio. Ecco la nostra speranza, confermata da un particolare: l’uomo che entra nella comunione del Padre porta nella sua carne le ferite della croce. In altre parole, il cuore di Dio si apre alla sofferenza umana, l’accoglie: l’uomo ascende, perché Dio è disceso. Mi commuove l’immagine del Padre, che abbraccia il Figlio morto, così simile all’abbraccio di Maria nella Pietà di Michelangelo. Sono quelle braccia pietose che sollevano l’uomo, tutto l’uomo.

                Dobbiamo dunque credere che anche la sofferenza acquista significato ed efficacia, attraverso le misteriose vie della sapienza divina. Dio non toglie all’uomo le sue responsabilità: questo sì sarebbe oppio, droga. Piuttosto, Dio prende la responsabilità del male e del peccato dell’uomo: questo è il ruolo dello Spirito Santo, introdurci nel disegno di Dio, farci scoprire che Egli usa persino il male che non vuole per il bene che vuole. Tutto questo avviene attraverso il progressivo cambiamento del nostro pensiero, come se una mano materna ci consolasse e ci accompagnasse. Lo Spirito ci porta oltre i nostri limiti, le nostre paure, i nostri pregiudizi: ci ispira la forma quotidiana della speranza, che è la mitezza; ci rende più sensibili alla fatica degli altri uomini, ci fa sentire che apparteniamo tutti alla medesima famiglia umana e al medesimo destino.

 

24 maggio 2020                                                                                         Don Giuseppe Dossetti