198^ lettera alla comunità al tempo della conversione
Il sangue, nella storia delle religioni, è una cosa seria. E’ una cosa seria, perché rappresenta la
vita e, per questa ragione, non va sprecato. Questo non vuol dire che non possa o, addirittura, non
debba essere versato; la sua effusione, però, deve avere un senso e uno scopo.
Nella Bibbia, i sacrifici umani vengono proibiti e viene versato un sangue sostitutivo, quello
degli animali. Nel libro dell’Esodo, ne abbiamo una rappresentazione solenne ed esemplare. Mosè è
salito in cima al Sinai per accogliere la volontà del Dio che ha liberato il popolo di Israele dalla schiavitù
egiziana. Il Signore vuole che questo rapporto sia perenne, che sia una alleanza “stabile come il sole”.
Viene quindi celebrato un rito, che sia segno e strumento di questa volontà. Anzitutto, viene eretto un
altare, rappresentanza del Dio inaccessibile e presente; tutt’intorno, vengono poste dodici pietre, che
rappresentano le tribù di Israele. Vengono sacrificati dei buoi e il loro sangue viene raccolto e poi
sparso, metà sull’altare e metà sul popolo. Dio e Israele condividono lo stesso sangue, sono legati per
la vita. Questo patto di sangue sarà rinnovato ogni anno nel tempio di Gerusalemme, nel grande
giorno dell’espiazione.
Gesù si riferisce proprio a questo rito, quando, nell’ultima cena, offre il calice del vino ai suoi
discepoli: “Questo è il mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza”. Il sangue diviene sacrificio; esso
ha un prezzo e uno scopo, l’”alleanza”, quella eterna, per sempre. “Fate questo in memoria di me”: il
sacrificio è unico e definitivo, ma dilata la sua presenza nei secoli, finchè vi saranno dei discepoli del
Cristo. “Per il perdono dei peccati”: quanto è più grande il sacrificio, tanto è definitivo il legame e nulla,
neppure la fragilità e l’infedeltà, può scioglierlo.
Ma che fare del sangue, che viene versato oggi in misura terribilmente nuova? Che fare del
sangue di decine di milioni di uomini e donne, uccisi nelle guerre del secolo scorso? Vi è però una
differenza, tra il primo e il secondo conflitto mondiale. Dopo la guerra del 1914, il sangue dei soldati
morti a milioni nelle trincee, quello di coloro che morirono di fame, fu disprezzato, non gli si diede un
senso, non fu occasione per riflettere sulle cause di quella tragedia. La conseguenza fu, che si lasciò
campo aperto alle ideologie, che negavano l’alleanza tra gli uomini: comunismo, fascismo e, in modo
supremo, il razzismo nazista, fecero del sangue il prezzo dell’odio e della volontà di morte. Il secondo
conflitto mondiale fu l’occasione per riflettere sul senso del sangue versato in modo ancora più
abbondante. E’ vero: ci furono coloro che non colsero la necessità di un pensiero nuovo. Per esempio,
viene attribuita al grande filosofo Benedetto Croce la frase Heri dicebamus, “ieri dicevamo”, ieri, prima
della tragedia, come se fosse possibile riprendere un discorso interrotto da qualcosa che non ci
appartiene. In realtà, la maggioranza dei popoli e dei loro capi scelse un’altra strada, quella, appunto,
di riconoscere che il sangue esigeva di servire a una nuova alleanza tra i popoli. La nascita
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cammino
faticoso dell’Unione Europea, sono i segni della convinzione che di quel sangue bisognava assumere la
responsabilità. Il nome, per il quale spendersi, era la pace, come riconoscimento e alleanza tra tutti gli
uomini. Per noi italiani, questo cammino portò alla nostra Costituzione.
Ma oggi, che significato dare al sangue versato, in Ucraina, il Terrasanta, ma anche sulle rotte
dei migranti e nelle guerre dimenticate? Sembriamo ritornati alla Prima Guerra Mondiale, quando il
sangue non aveva né prezzo né significato, quando servì a contrapporre gli uomini tra loro,negando la
loro comune dignità. Il sangue ci richiami al dovere di promuovere l’alleanza tra i popoli. Ne siano
consapevoli soprattutto coloro che portano il nome di Colui che lo ha versato “per voi e per tutti”.
02 giugno 2024 don Giuseppe Dossetti