Confesso che quello che scrivo è anche un tentativo di reagire al sentimento di impotenza, che provo ogni giorno di più di fronte alla guerra in Ucraina, ma anche per quella che si combatte “a bassa intensità” in Palestina e in Medioriente, e per il dramma dell’immigrazione, dato ormai per scontato. Mi viene in mente la frase di Pascal: “L’uomo, non avendo potuto porre rimedio alla morte, alla miseria e all’ignoranza, per essere felice ha deciso di non pensarci”. Ebbene, cerco di pensarci, anche se non vedo soluzioni; desidero anche condividere con voi la mia inquietudine e chiedo il vostro perdono per i miei balbettamenti.
Il mio punto di partenza è una parola che Gesù e i vangeli usano spesso: “fratelli” (e, ovviamente, intendono anche “sorelle”). Sembra che questa parola, in origine, sia riservata ai fratelli nella fede, ma, nei secoli, il suo significato si è dilatato fino a comprendere l’umanità intera. L’uguaglianza tra gli uomini, riconosciuta dai testi più importanti, come la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e la nostra Costituzione, è la versione laica di questa novità evangelica. Ma le conseguenze sono paradossali: Putin è mio fratello e mio fratello è anche lo sconosciuto contadino indiano, al quale il tifone ha rovinato le sue povere coltivazioni. E’ mio fratello anche l’africano che chiede l’elemosina davanti alla mia chiesa. Certo, questa fratellanza non vuol dire che dobbiamo accettare tutto, dire di sì a tutto. Ma una cosa è certa: io sono responsabile di quell’uomo, di quella donna … , non posso dire, come talvolta vorrei, “Non è un mio problema”.
Perché questo? Non certamente per buonismo, per l’adesione tardiva al mito rousseauiano del buon selvaggio, o per il senso di colpa che, alla fine, ci porta ad accettare lo status quo. La ragione sta in una frase di san Paolo, terribile nella sua concisione: “L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti” (2Cor 5,14).
Il vangelo ne trae una conseguenza: “Tutto quello che legherete sulla terra, sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 18,18). Veniamo caricati di una terribile responsabilità, che nello stesso tempo diventa una porta aperta alla speranza. Possiamo rendere difficile a Dio il suo agire nella storia, se leghiamo, se diffondiamo paure, egoismi, sentimenti di vendetta. Ma possiamo anche divenire suoi collaboratori, se questi nodi li sciogliamo. Ciascuno di noi conosce se stesso a sufficienza per sapere da dove cominciare, per non essere seminatore di odio, ma di riconciliazione. Concretamente, Gesù propone l’arma della preghiera: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Facciamo fatica ad accettare questa ricetta; preferiremmo indicazioni più concrete, di carattere economico o diplomatico. Non è sbagliato percorrere anche queste vie, purchè non siano un modo per sfuggire alla perentorietà dell’invito di Gesù. E’ vero: proporre la preghiera come rimedio universale, sembra una fuga dalla concretezza delle nostre responsabilità. Oso dire, però, che questa critica viene da chi conosce poco la preghiera: essa è difficile, perché è un veleno per l’”uomo vecchio”, per la sua presunzione, per il suo orgoglio di un Adamo che vuole essere il dio di se stesso.
Ma c’è una ragione più stringente, per la quale la preghiera è efficace. Gesù afferma: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). La preghiera dei figli diventa la preghiera del Figlio. La Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo … Siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre” (Ebr 10,9s.). Ci viene dato il compito di assumere nella nostra preghiera l’anelito dei poveri e delle vittime; ma presentiamo alla misericordia divina anche coloro che sono prigionieri e strumenti del male del mondo.
10 settembre 2023 don Giuseppe Dossetti