Ancora una volta è Pasqua, ma è una Pasqua strana. Avverto un distacco ancora più forte tra i riti, che annunciano la Risurrezione, e la realtà di tutti i giorni, la guerra, la sofferenza e il bisogno di pensare ad altro. Con un paradosso, direi che la malattia del Papa fa più notizia della morte e risurrezione di Colui che egli rappresenta. E’ il silenzio di Dio. Come interpretarlo? Forse, si è stancato di noi o, più prosaicamente, non ha niente da dire a un’umanità sorda e violenta.
Il silenzio di Dio. Non c’è risposta neanche al grido del Figlio: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Il grido si ripete oggi, in mille echi, dai campi di battaglia, dal mare che restituisce cadaveri, ma anche da ospedali e prigioni. Le parole dei capi di Gerusalemme vengono ripetute, ora con tono di sfida, ora con sofferta protesta: “Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene”.
Il silenzio di Dio non è però la sua assenza. Egli sollecita anche noi a entrare nel silenzio. La parola di Dio non è fatta di suoni, ma è quell’uomo, appeso a una croce, alla porta di Gerusalemme. E’ una parola che ci invita a un itinerario spirituale, mirabilmente descritto da san Paolo: “Dio era in Cristo, e in lui riconciliava a sé il mondo”(2Cor 5,19). Dio era in Cristo: quell’uomo, respinto e torturato, così uguale ai milioni e milioni di altri uomini, come lui crocifissi, è anche, nello stesso tempo, Dio. Questo nome è stato insozzato da chi lo usa per giustificare violenze ed egoismi; esso però viene purificato da questa estrema debolezza, che pone a tutti la domanda: “Io sono qui, nell’abbandono e nell’impotenza: e tu, dove sei?”
Paolo dice: “In Cristo, Dio ha riconciliato a sé il mondo”. Egli accetta di giustificarsi davanti al tribunale degli uomini. Egli non è assente, anche se la sua presenza non è quella che noi pagani vorremmo, la forza, il potere. Egli ha deciso di assorbire in sé il male e la sofferenza di tutti, il dolore del mondo, di modo che nessuno sia escluso, non le vittime, ma neanche i carnefici. Che cosa dice a noi l’Uomo dei Dolori, di fronte al quale si desidera voltare la faccia da un’altra parte (Isaia 53,3)? Noi, che siamo i forti, siamo esortati ad avere uno sguardo diverso: infatti, siamo abituati a guardare con allarme e paura la guerra, la crisi economica, le migrazioni, le malattie, e accusiamo Dio come se mancasse al suo dovere di tutelare la nostra felicità: “Salva te stesso e noi!”(Lc 23,39). Dovremmo piuttosto guardare all’uomo, nella concretezza dei suoi limiti, ma anche nella dignità che gli deriva dalla sua sofferenza. Parlo di dignità: chi rivolge lo sguardo al Crocifisso non può non riconoscerlo negli uomini crocifissi.
In Cristo, Dio ha riconciliato a sé il mondo: il mondo, cioè tutti. Questo vuol dire che ha preso la responsabilità di ogni uomo, del suo peccato, della sua miseria, del suo dolore. Per questo, la sua presenza nella storia non può prendere altra forma se non quella della croce. Questa universale riconciliazione rende anche noi responsabili: servitori, non padroni.
Nel nostro tempo, la carità, l’amore, tutte le grandi e belle parole sono realtà difficili. Qualche volta, viene anche a me la tentazione di ritirarmi, di lasciare il posto che Dio mi ha assegnato. Ma dove andare? Mi riconosco in Maria Maddalena, che rimane accanto al sepolcro di Gesù, anche se è vuoto, anche se lei pensa che qualcuno abbia rubato il corpo, estremo vestigio di una speranza svanita. Ma, a differenza di Maria, conosco la fine della storia. Viene il giorno, viene sempre anche se inatteso, in cui il mio nome sarà pronunciato. Maria Maddalena riconosce Gesù quando le si rivolge: “Maria!”, le dice. Quanta dolcezza, in quella parola, che crea non solo consolazione, ma libertà.
Il mio augurio, a tutti voi, è che anche il vostro nome sia pronunziato. Allora, le piaghe del Crocifisso vi ricorderanno che siete amati e che nulla potrà strapparvi dalle sue mani.
02 aprile 2023 don Giuseppe Dossetti