A Zhitomir, la guerra ha lasciato i segni: proprio in centro, una scuola è stata colpita e distrutta, ma non per errore. Infatti, alcuni edifici erano stati trasformati in caserme, nei primi giorni di guerra. Per loro fortuna, i soldati si erano allontanati da qualche ora, prima che il missile arrivasse. Anche la nostra scuola, quella che abbiamo fondato nel 1994, si è trovata a un chilometro da un’altra esplosione. Tuttavia, adesso la situazione in città è più tranquilla. Vengono colpite ogni tanto le centrali elettriche e in questi giorni un grande deposito di carburante. Si tratta però di impianti fuori città e le squadre di manutenzione sono diventate molto abili nel creare nuovi collegamenti, in sostituzione di quelli colpiti, cosicchè luce, acqua e riscaldamento subiscono solo brevi interruzioni.
La guerra ci viene ricordata dalle sirene. Sono frequenti, ma riguardano ordigni che sorvolano la regione per colpire al di là di Kiev. Tuttavia, i bimbi della scuola sono abituati a scendere nel sotterraneo che funge da rifugio. Chiediamo alle insegnanti come i bambini vivano questa situazione e la risposta è un po’ una sorpresa: i bimbi e i ragazzi (la scuola copre tutti e dieci gli anni dell’obbligo) sono più maturi e hanno più voglia di studiare; si interessano alla storia e alla cultura ucraina.
Il padre Michele, presidente della scuola, vive nell’edificio, in un quartierino, assieme a un confratello. Sono salesiani polacchi. Sono esemplari per dedizione. La Polonia aiuta molto, non solo perché ha accolto un milione e mezzo di profughi, ma cura l’assistenza e il transito di risorse, non militari, perché si possa continuare una vita di comunità.
Ma la guerra arriva nelle case dei bambini anche attraverso la notizia della morte di parenti e attraverso i feriti, ricoverati nell’ospedale militare. Incontriamo il direttore, una bella figura di medico: vengono assistiti trecento soldati, e appena si libera un posto c’è chi lo occupa! Tra i tanti problemi del dopoguerra ci sarà proprio quello dei mutilati e degli invalidi. Non solo i corpi hanno bisogno di cure, ma anche le conseguenze psichiche di esperienze al limite dell’umano. Anche qui, psicologi polacchi aiutano, con una competenza specifica.
A Zhitomir, c’è una grande adesione alla posizione del governo e si confida molto in un’offensiva di primavera, che dovrebbe permettere la riconquista del terreno perduto. Ma le cose non sono affatto semplici, come si può ben immaginare. Ho parlato con alcune persone amiche, che mi hanno descritto con lucidità le prospettive. Una di loro mi ha detto: “L’Ucraina non ha che questa alternativa: o vincere o morire”. Non c’è retorica in questa affermazione, e spiega: “Il dominio russo sarebbe lo schiacciamento dell’Ucraina, la sua fine come nazione”. L’altro amico dice la stessa cosa per la Russia: “Se la Russia perde, la Federazione esplode, le repubbliche periferiche andranno per conto loro. Ci sono già delle cartine, nelle quali l’attuale territorio è diviso in quattro parti”.
Dunque, sembra che non ci sia soluzione, se non quella di combattere e combattere, fino a resistere un minuto in più dell’avversario. Viene in mente la Prima Guerra Mondiale, con la quale esistono tante altre analogie. Anche lì, l’incendio della guerra si è spento solo quando non ci fu più niente da bruciare. Il vincitore umiliò il vinto, nell’illusione di impedirgli per sempre di riprendere le ostilità. Sappiamo come andò a finire e come furono profetiche le parole di Benedetto XV: “Le nazioni non muoiono, ma aspettano frementi l’occasione della vendetta”.
Per questo, è importante il contesto internazionale. Va riconosciuto il diritto dell’Ucraina alla difesa, ma non siamo di fronte a una partita di calcio, bensì a una tragedia che sta cambiando il mondo. I due attori, che si affrontano sul campo, non hanno la possibilità di uscire dal pantano in cui li ha gettati l’attacco russo. Russia e Ucraina sono prigioniere di sabbie mobili, dove stanno affondando. Le altre potenze non possono continuare a stare a guardare, auspicando che il primo ad affondare sia il nemico.
In questo quadro, il ruolo delle Chiese è fondamentale, ma molto difficile, soprattutto a causa della divisione ormai millenaria tra i cristiani. In Ucraina, esistono due chiese cattoliche, quella di rito latino (come la nostra) e quella di rito greco bizantino, presente soprattutto ella parte occidentale del Paese e ora con sede metropolitana a Kiev. Gli ortodossi sono divisi in tre. Quelli che riconoscevano l’autorità canonica del Patriarcato di Mosca hanno sospeso la comunione con il Patriarca Kirill, dopo il suo appoggio così supino alla politica di Putin. Il loro metropolita su chiama Onufrij e ha preso posizione contro la guerra. L’altra chiesa è quella del metropolita Epifanij, che è stata riconosciuta dal Patriarcato di Costantinopoli e mira alla costituzione di un patriarcato di Kiev; essa è fortemente connotata in senso nazionalista. La terza chiesa è quella di Filaret, che fondò a suo tempo la Chiesa ortodossa del Patriarcato di Kiev. Costantinopoli, cui competono i riconoscimenti, non accettò l’istituzione di un nuovo Patriarcato e concesse una dignità minore, l’autocefalìa. Questo bastò, perché Mosca interrompesse i rapporti di comunione con Costantinopoli. Epifanij è però sembrato a Filaret troppo accomodante a così Filaret ha fondato un’altra Chiesa. Poi, esistono chiese e comunità evangeliche, spesso molto antiche e venerabili. Capite bene come questa situazione così complicata non giovi alla causa della pace.
Tutte queste chiese sostengono la difesa ucraina e si fanno carico, come possono, dell’assistenza ai profughi. Esiste un certo coordinamento degli aiuti. La Chiesa ex di Mosca viene sospettata di ipocrisia e accusata di sostenere segretamente la politica imperiale di Putin, con le sue conseguenze cesaropapiste in campo ecclesiale. Non sembra sia il caso del metropolita Nikodim, che abbiamo incontrato nella sua cattedrale. E’ molto giovane e affabile. Sappiamo di lui che gioca molto bene a ping pong e ci fa omaggio del frutto di un’altra sua passione, l’apicultura. Conservo il secchiello del “Miele del Metropolita”. Ci decrive con molta semplicità la situazione, rivendicando la lealtà al suo popolo, ma lamentando le calunnie e le violenze subite. Su duecento parrocchie, quaranta sono state annesse alla chiesa di Kiev, ma solo sette parroci hanno cambiato appartenenza. Come si spiega? Con l’ingresso forzato negli edifici da parte della fazione che vuole “derussificare” l’Ucraina. Proprio mentre eravamo a Zhitomir, il Ministero per gli affari religiosi del governo di Kiev ha rivolto un ultimatum ai duecento monaci del Monastero delle Grotte: devono lasciare il complesso degli edifici entro la fine di marzo. Il Monastero, o “Lavra”, è uno dei luoghi più sacri dell’Ortodossia slava e risale al tempo della Rus di Kiev. Custodisce le tombe di centinaia di santi religiosi ed è sempre stata governata dal Patriarcato di Mosca. Anche dopo l’indipendenza del 1991, nessuno ha mai messo in discussione questo rapporto. Papa Francesco, nell’udienza del mercoledì, ha ammonito di non aver paura di coloro che pregano. Ho visitato più volte questo straordinario complesso, che comprende le catacombe, chiese, monasteri, il seminario, luoghi di accoglienza, e questo provvedimento mi pare essere una violenza intollerabile.
Questa situazione, molto dolorosa, spiega l’esistenza dei nostri amici del Gruppo Cristiano Ecumenico, che frequentiamo dal 1992 e sono ancora la chiave per entrare in questo mondo affascinante e misterioso. Hanno sofferto persecuzione nell’era sovietica e da allora si riuniscono per pregare, cristiani delle varie appartenenze, per l’unità della Chiesa. Avevano il sogno della scuola e noi abbiamo avuto la possibilità di aiutarli, ricevendo in cambio il tesoro prezioso della loro esperienza spirituale e della guida in un mondo davvero complesso. Purtroppo, la guerra ha aggravato le divisioni e gli odii antichi. E’ importante incontrare uomini e donne che ancora credono nel Vangelo.
Ma perché è importante avere un rapporto fraterno e stabile con questo mondo? Non certo per ragioni turistiche. Lo si capisce entrando nella cattedrale ortodossa ex Mosca, un nobile edificio della fine dell’Ottocento. Ancora una volta, mi ha colpito l’armonia e la bellezza di una celebrazione che coinvolge tutto il popolo, e che è guidata dalla ripetizione costante dell’invocazione Gospodi pomilui, “Signore, abbi pietà”. La Chiesa celeste è presente, con la bellezza dei canti, con le icone, che vengono chiamate “finestre”, attraverso le quali il santo entra nella vita della comunità. L’oro, che ricopre le cupole all’esterno e le cornici e l’iconostasi all’interno, è il riflesso della luce divina. A questa bellezza, il fedele risponde con l’umiltà del bacio all’icona e alla Croce, e con la candelina, piccola piccola, come piccolo e povero è l’uomo. Il dolore viene santificato, assunto nel grande dolore del Cristo; ma il tempo si apre all’eternità e la liturgia ne è un’esperienza anticipata. Certo, i difetti ci sono e anche evidenti, in particolare la mancanza della separazione tra Chiesa e Stato.
Non serve rimproverarsi i difetti gli uni degli altri. Il primo e fondamentale contributo alla pace è quello che san Paolo chiede ai cristiani di Roma: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Ma per stimarsi, bisogna conoscersi. Dobbiamo conoscere la storia e la tradizione spirituale di quei mondi. Le nazioni occidentali, nella loro presunzione, commettono errori che si spiegano soltanto con l’ignoranza.
Certamente, ora ci sono anche delle necessità immediate: i pacchi alimentari servono, soprattutto agli sfollati dalle regioni dell’est, per arrivare alla fine del mese. La scuola è un legame straordinario per lo scambio di conoscenze. Il rifugio antiaereo, nei sotterranei del convento dei francescani, significa essere pronti, qualora la situazione peggiorasse. Abbiamo visitato il cantiere: si stanno sostituendo i mattoni delle parti ammalorate dall’umidità e si stanno predisponendo gli impianti. Se non servirà come rifugio, e ce lo auguriamo, servirà comunque come luogo di incontro.
In conclusione, per distruggere non ci vuole molto tempo. Il tempo, la costanza e la pazienza servono per ricostruire. Gesù benedice gli “operatori di pace”, nel Discorso della Montagna. Seminiamo pace. Il raccolto ricompenserà la fatica.
L’Ucraina non è il solo luogo dove questo discorso è necessario. L’elenco potete farlo anche voi. Ma voglio richiamare la Terrasanta. Il livello di ingiustizia e di oppressione degli Israeliani sui Palestinesi si è innalzato vistosamente, da quando è entrato in carica il nuovo governo. L’impressione è, che non ci siano più neppure quei limiti, spesso puramente “decorativi”, che la tradizione democratica di Israele imponeva. Anche lì, i depositi di odio, già esistenti, si stanno innalzando a misure che fanno pensare a una prossima incontrollabile esplosione. Bisogna andare, incontrare le persone di buona volontà, che esistono da una parte e dall’altra. Bisogna incoraggiarli: la nostra speranza dipende da loro. Quello che vale per Kiev, vale anche per Gerusalemme.
don Giuseppe Dossetti