“Non temere!”. Così l’angelo si rivolge a Giuseppe, come poco prima aveva fatto con Maria. Non si tratta del timore di fronte alla manifestazione del divino, come accadeva nei riti pagani, quanto piuttosto del sentimento di indegnità e di inadeguatezza, di fronte all’enormità del compito che il messaggero celeste prospetta. Io sono convinto che, a differenza di quello che normalmente si dice, Giuseppe volesse usare la legge mosaica per divorziare da Maria, non perché ignorasse l’origine di quel bimbo, sospettando la sua sposa di adulterio; piuttosto, egli misurava la distanza tra la volontà divina, la nascita del Salvatore, e la propria condizione umana. Il suo desiderio di esimersi da questo compito non era espressione dell’arcigna moralità del legalista, quanto invece l’umiltà dell’uomo “giusto”, che cioè sa misurare la giusta distanza tra la creatura e il Creatore.
“Non temere”, è dunque un incoraggiamento, ma soprattutto il regale conferimento di un compito, per il quale l’uomo è certamente inadeguato: ma in quella parola c’è una promessa, la stessa che è risuonata alle orecchie di Abramo, di Mosè e di tutti i grandi uomini di Israele: “Io sarò con te”.
La parola giunge durante il sonno, nel sogno. Viene in mente il sonno di Adamo, quando Dio plasma dalla sua costola la donna e gliela porta innanzi. Il grido di Adamo esprime meraviglia e gratitudine. La passività del sonno indica che quello che avviene è pura grazia. Così è anche per Giuseppe. Ma Giuseppe sogna, e sognerà ancora: il vangelo di Matteo lo riporta altre tre volte. Il sogno è una parola che dona una prospettiva, che è bellezza e libertà, pur nel timore, dell’uomo consapevole dei propri limiti.
Il sogno diventa realtà, nella libera adesione dell’uomo alla parola di Dio. Di Giuseppe non viene ricordata nessuna parola, ma si dice che agisce prontamente, “alzandosi”: la parola non significa solo lo svegliarsi, ma è la stessa che viene usata per la risurrezione di Gesù. Infatti, si è vivi solo nell’azione.
Noi siamo continuamente assediati dal dubbio e il dubbio paralizza. Ma l’azione responsabile non è cieca, altrimenti sarebbe azzardo e, in definitiva, gioco. Ci dev’essere un sogno, che ci guidi. Questo significa che dobbiamo essere in ascolto di noi stessi: facilmente, distingueremo quanto viene dalla presunzione, e quanto invece è una richiesta, rifiutare la quale sarebbe un atto di rinunzia a qualcosa che contiene una promessa.
Non è necessario sapere in anticipo che cosa comporterà il nostro assenso. La promessa, infatti, non è un oggetto, un potere, una carriera, una gloria che ci distingua dagli altri uomini. La promessa è suggerita con discrezione da Matteo, che cita il profeta Isaia, il quale, seicento anni prima, aveva preannunciato la nascita di un bimbo, il cui nome sarebbe stato “Emmanuele”, che significa “Dio con noi”.
Questo nome contiene in sé l’invito a non temere e, nello stesso tempo, è il contenuto della promessa.
Dovunque tu sia, quale che sia la tua ferita, il male al quale hai ceduto, la solitudine, la malattia, la morte stessa, accanto a te, dentro di te, la voce t’invita a non temere e a compiere liberamente l’azione più importante, il consegnarsi, l’affidarsi. E così troverai la pace.
18 dicembre 2022 don Giuseppe Dossetti