“SHALOM” – 108^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra – don Giuseppe


Le parole di Gesù, che la Chiesa legge in questa domenica, sono particolarmente impegnative. Egli le pronunzia nella conversazione con i suoi discepoli, durante l’ultima cena della sua vita, a poche ore dall’arresto e dalla morte. Proprio per questo, esse hanno particolare forza e autorevolezza: sono un testamento spirituale, avvalorato da un amore che giunge fino al sacrificio della vita.

              “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).

              Come è possibile dare un senso a queste parole, quando c’è in corso una guerra, con le sue atrocità? La guerra è come uno sberleffo, rivolto al dolce visionario di Galilea, ma anche a quel Dio, che egli si ostina a chiamare Padre. La guerra assomiglia al direttore di un teatro, che a un certo punto entra in scena e, rivolto al pubblico, dice: “Tenete presente che tutto questo è una finzione. Fuori di qui, ci si odia e ci si ammazza. Fate attenzione, quando uscite”.

              Il guaio è, che Gesù mette in stretta connessione il comportamento dei discepoli e l’efficacia del suo insegnamento. Dovremmo, infatti, essere uniti, concordi, solleciti del bene di ciascuno e di tutti. La guerra sembra dirci che questo non accade e non accadrà, e che tali discorsi fanno parte di una colossale presa in giro.

              Eppure, queste parole continuano ad essere pronunziate, anche dopo duemila anni. e continuano a inquietare gli uomini e le donne che le leggono o ascoltano. Perché? Io credo, perché, comunque, anche se pronunziate da chi magari le smentisce con i suoi comportamenti, c’è in esse una verità che non possiamo eliminare dalla nostra coscienza: la dignità mia, che postula di conseguenza quella dell’altro. Come io esisto, perché c’è un Tu che mi interpella, e che qualcuno chiama Padre, così debbo riconoscere che questa paternità è universale.

              Che fare, allora, nell’attuale situazione, nella quale tante atrocità vengono commesse, addirittura giustificate, magari accettate con la rassegnazione di chi pensa che il male sia inevitabile?

              Ammetto che, se mi trovassi a Bucha o Mariupol, probabilmente sarei anch’io travolto da questi meccanismi infernali. L’essere lontano dagli eventi non può però essere motivo di soddisfazione egoista, ma deve diventare l’occasione per pensare e agire con ostinata volontà per la pace.

              Il primo impegno dovrebbe essere l’esercitarci a pensare pensieri di pace. Dobbiamo rifiutare, anzi, rigettare la convinzione che la guerra sia la normalità. E’ la pace ad essere l’unica via degna dell’uomo e vanno identificati i meccanismi che corrompono le relazioni tra le persone, le comunità e gli stati. Invece, nessuno si mette in discussione, l’altro è un mostro, la trattativa un’ammissione di debolezza, l’obiettivo è la vittoria, che coincide con l’annientamento dell’avversario. Pensare la pace, vuol dire anche pensare la giustizia; vuol dire, ed è cosa importantissima, conoscere l’altro, la sua storia, le sue diversità.

              Qui sta la grande responsabilità di chi, come le Chiese, parla alla coscienza dei popoli; questa è la strada difficile di Papa Francesco, quella che fu di Benedetto XV, quando dichiarò la prima guerra mondiale “un’inutile strage” e “il suicidio dell’Europa”. C’è, in questa guerra, un aggressore e un aggredito, ma questo non vuol dire che la richiesta che le armi tacciano e si giunga alla trattativa debba essere interpretata come una concessione all’ingiustizia.

              Pensare la pace vuol dire riportare in primo piano la riconciliazione tra i cristiani: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. Quale testimonianza stiamo dando?

              Poi, pensare la pace ci aiuterà a fare la pace nella nostra realtà quotidiana. Non è ingenuità affermare che la pace si costruisce a casa nostra. Credere nella risurrezione del Cristo, vuol dire credere anche alle parole da lui pronunziate sul monte: “Beati i miti, perché possederanno la terra” (Mt 5,5).

              Non archiviamo queste parole come ingenue e impraticabili. Meno degli altri, lo possono fare i cristiani. Nelle parole pronunziate dal Cristo, si dice anche: “Come io ho amato voi, amatevi anche voi gli uni gli altri”. Le nostre infedeltà, debolezze, incoerenze, non possono però distruggere il fondamento, costruito una volta per sempre a Gerusalemme: non sarà mai rinnegato l’amore fino alla morte. Non ha senso accettare il paradosso supremo della risurrezione dai morti, se non si ascolta la prima parola che il Risorto rivolge ai suoi discepoli, e che viene continuamente ripetuta nell’Eucaristia: “Shalòm, pace!”.

15 maggio 2022                                                                don Giuseppe Dossetti