“LA PAROLA VICINA AL CUORE” – 94^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Gesù inizia la sua predicazione a Nazareth, dove tutti conoscevano il “figlio di Giuseppe”. Questo esordio si conclude con un fallimento: “Lo cacciarono fuori dalla città” (Lc 4,29), addirittura con intenzioni omicide. Come mai un rifiuto così violento da parte di quella brava gente? Il vangelo suggerisce che essi pretendevano qualche miracolo, ma soprattutto che rimasero offesi dalla preferenza di Gesù per gli stranieri e i poveri: già nell’Antico Testamento, questi avevano accolto con maggiore disponibilità i profeti, cioè coloro ai quali il Dio di Israele aveva affidato la sua parola.

Mi chiedo se anche noi, nazioni cristiane da duemila anni, non ci stiamo comportando allo stesso modo. Certamente, non c’è un rifiuto violento di Gesù e della sua predicazione; ma forse gli opponiamo un cortese,ma fermo diniego ed educatamente lo accompagniamo alla porta, soprattutto in questo tempo di pandemia. Anche noi vorremmo qualche miracolo, anche piccolino, soprattutto ora, che vacilla la nostra fiducia nella scienza. L’assenza di Dio è l’accusa che gli rivolgiamo: quanti milioni di uomini si sono interrogati, non solo a Auschwitz, sul suo silenzio.

Di fronte al silenzio, ma anche alle troppe parole, la conseguenza è la tristezza. Dobbiamo aspettare la fine della pandemia per ricuperare un po’ di serenità? Cosa ne faremo, della sofferenza di questi giorni? Sarà possibile ripartire o almeno dimenticare?

Mi convinco sempre di più che l’unica via per uscire da questa tristezza sia la conversione. Uso deliberatamente questa parola del linguaggio religioso, confortato dal fatto che è la prima parola che Gesù pronunzia nella sua predicazione (Mt 4,17).

La conversione è stata troppo spesso interpretata in senso etico, morale: essa consisterebbe nel fuggire le abitudini peccaminose, per sposare comportamenti virtuosi. Il cambiamento dei nostri costumi è certamente importante, ma viene dopo. La conversione è prima di tutto ascolto di una parola che ciascuno scopre rivolta a lui e non ad altri e chiede di mettersi in discussione, meglio, di mettersi in cammino. Il comportamento morale è spesso statico, per la convinzione di essere a posto con Dio e con gli uomini: per questo rimaniamo delusi, quando questa specie di polizza d’assicurazione non viene onorata.

Invece, convertirsi (letteralmente, “rivolgersi a qualcuno”) è prima di tutto accettare che sia un altro a prendere l’iniziativa, magari disturbandoci o spaventandoci. Ma, a differenza dei comandamenti etici, che sono universali e riguardano tutti, la conversione è accogliere una parola rivolta a me e a me soltanto, e già per questo semplice fatto essa contiene una promessa: “Io sono con te, sempre”. Questa parola “è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”, aveva già detto l’Antico Testamento (Deut 30.14). Per ascoltarla, è utile un po’ di disponibilità, far cessare il rumore, anzi il frastuono di fondo della nostra anima. Serve molto l’abitudine di leggere ogni giorno un pezzettino del Vangelo, con disponibilità, senza pretendere di trovare subito la risposta ai nostri problemi. La risposta verrà piano piano, ma soprattutto verrà la consolazione.

Infatti, la tristezza nasce dalla solitudine, la pace nasce dall’essere sicuri di una presenza buona che ci accompagna per mano. Come abbiamo visto, sono i poveri e gli stranieri che più facilmente ascoltano questa parola. Lo straniero è colui che non ha diritti, e il povero è colui che ha finito le sue risorse: per questo, la loro anima è più disponibile, anche se essi pure dovranno mettersi in cammino, mettere in discussione le aspettative, accettare il paradosso che la consolazione venga da un altro Povero, da un Dio povero fino alla croce.

La conseguenza della conversione è necessariamente la carità. Nelle letture di questa domenica, Paolo ce ne parla mirabilmente (1Cor cap.13). Ma anche qui bisogna mettersi nella prospettiva di un cammino spirituale: non potrò mai dire, “ho amato abbastanza”. L’apostolo dice: “La carità è magnanima, non cerca il proprio interesse”. Che bella, questa parola “magnanima”, dall’animo largo, generoso, accogliente: la carità magnanima è in grado di accogliere la sofferenza, propria e altrui, con speranza, con fiducia. Allora, anche la pandemia potrà essere l’occasione per diventare più buoni: consapevoli della nostra povertà, scopriremo di avere tanti fratelli: questa sarà la nostra vera ricchezza.

30 gennaio 2022                                                                   don Giuseppe Dossetti