“ANCH’IO SULLA BARCA” – 92^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Così, il virus è entrato anche da me, un ospite scomodo e certo non desiderato. Non ha fatto molti danni: avevo ricevuto anche la terza dose del vaccino, che probabilmente ha evitato guai più grandi. Sto bene, ma sono rinchiuso come un eremita, anche se questa non è la mia vocazione.

Ho dovuto ripensare qualcosa della mia vita. Abituato a dare, debbo ora fare esercizio di umiltà e riconoscere che adesso ho bisogno io degli altri. Riscoprire questo, è molto sano. L’elenco dei miei benefattori è lungo. Primi fra tutti, medici, infermieri, personale sanitario: in una situazione di grande sovraccarico, di fatica e di rischio personale, mi hanno dato sicurezza e ottimismo. Abituati a pretendere tutto, dovremmo apprezzare la professionalità di questi fratelli e sorelle. Mi hanno anche raccontato di dover svolgere, a causa dell’isolamento, la parte della famiglia dei loro pazienti e di non ricevere sempre gratitudine, ma anche lo sfogo di paure, che prendono talvolta la forma dell’aggressività.

Poi, ci sono i miei parrocchiani, la mia famiglia, gli amici, don Anthony, i miei ospiti. Ringrazio tutti di cuore. Voi sapete che, anche a nome vostro e con il vostro aiuto, sto ospitando alcune persone, italiane e straniere: grazie a loro, la parrocchia rimane aperta e io sono protetto e aiutato.

Tuttavia, c’è un pensiero che mi inquieta, spero salutarmente. Ci ricordava il Papa, ormai due anni fa, che siamo tutti sulla stessa barca. E’ vero. Ma proprio l’esperienza di questi giorni mi fa dire che nella barca ci sono posti diversi, molto diversi. Chi sta nel salone ristorante, non si rende conto della fatica di chi lavora nella sala macchine. Fuori di metafora, io sono un privilegiato, in confronto a quanto sta succedendo nel mondo.

Si continua a morire ai confini dell’Europa. Senza parlare di quelli che muoiono in mare, mi sembra orribile quello che sta succedendo al confine tra Polonia e Bielorussia: persone che non possono andare né avanti né indietro, respinte dagli uni e dagli altri, disperse nel freddo della foresta, terra di nessuno. Ma quello che mi impressiona di più, è che le autorità impediscano l’accesso alle organizzazioni umanitarie e ai giornalisti. Si vuol mettere la spazzatura sotto al tappeto, ma questa volta, ad essere trattati come spazzatura, sono degli esseri umani. Si dichiara così che queste persone sono nemiche, non solo della nostra economia, ma anche della nostra buona coscienza. Impedire che si parli di loro, equivale a impedire che esistano. I responsabili di questo delitto ritengono forse di poter aspirare alla nostra gratitudine, perché ci aiutano a rimuovere pensieri scomodi.

Vorrei non essere complice di questo delitto. Voglio ricordare queste persone, veri crocifissi del nostro tempo. Vorrei che tutti li portassimo nel cuore, che creassimo un’opinione, che non ci rassegnassimo a un problema certamente enorme: ma non si può prendere come alibi la difficoltà. Non lo ha fatto David Sassoli. Il cardinale Zuppi ha ricordato le sue parole, pronunziate meno di un mese fa: “Abbiamo visto nuovi muri, i muri eretti contro persone, e abbiamo il dovere delle Istituzioni di difendere i più deboli. Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie. Quei muri, anche, che sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità”.

Capite allora perché non mi sento come tutti gli altri uomini. So anche però come usare per il bene la scomodità di questo pensiero. Sentirsi in debito è bello, se genera la generosità e il servizio. Alessandra, la moglie di Sassoli, ha detto una cosa stupenda, al funerale di suo marito: “L’amore non si divide, si moltiplica”. Miei cari, nulla è piccolo o insignificante. Una telefonata la possiamo fare tutti e può illuminare una giornata. Ma, soprattutto, non dimentichiamo, non ignoriamo, portiamo nel cuore e nella preghiera coloro che sono nella barca con noi. La barca non affonda per il peso di chi ci sale, c’è posto per tutti. Potrebbe affondare per una falla, scavata dall’egoismo cieco.

Vedete, l’antidoto è proprio la preghiera. Penso che ci sia una preghiera anche di chi non crede: un po’ di silenzio, di meditazione, di memoria. Grazie ad essa, diventiamo più umili e il nostro sguardo si dilata, i propositi diventano più saldi. Il sentirci debitori, ci ricorda la bellezza di appartenere a un’unica famiglia.

16 gennaio 2022                                                               don Giuseppe Dossetti