La venuta di Gesù è preceduta da quella di Giovanni il Battista, personaggio singolare e scomodo per i potenti di allora, tant’è vero che gli faranno tagliare la testa. Egli è scomodo non soltanto per la sua predicazione, ma anzitutto perché pone la sede del suo ministero nel deserto. Il vangelo di Luca descrive con precisione puntigliosa l’ordine mondiale dei suoi tempi: “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, …” (Lc 3,1,s.): tutto è sotto controllo, persino la sconosciuta Abilene; vi è armonia tra il potere politico e quello religioso: Anna e Caifa benedicono, forse a malincuore, questa alleanza. Ma ora compare questo strano e irsuto profeta, un originale, che si stabilisce nell’unico luogo che non interessa ai potenti, il deserto.

In realtà, il deserto è un luogo di presenze. Israele vi ha camminato per quarant’anni, guidato dal suo Dio. Il popolo porta con sé la nostalgia di un rapporto intimo e forte; là dove le illusioni umane decadono, dove l’uomo è posto veramente di fronte a se stesso, in quella marginalità, circondati dal silenzio, che non è assenza, ma abbraccio, può trovare ascolto la domanda: “che cosa è veramente importante per me, che cosa sto veramente cercando?”.

Il virus ha creato attorno a noi un grande silenzio. Ricordiamo i mesi del confinamento dell’anno scorso: le città vuote, niente traffico, la vita sociale sospesa. Oggi, per fortuna, è di nuovo possibile uscire di casa e incontrarsi: ma la memoria di quel silenzio rode ancora dentro chi lo ha sperimentato. Ci sono luoghi dove esso continua, per esempio, gli ospedali o le carceri. Il dolore isola, le mascherine nascondono i sentimenti, soffocano le parole.

Fuori da questi deserti, la vita continua, come si dice. Continua, sì, ma guidata da un desiderio fin troppo evidente. Che cosa significa questa preoccupazione per i viaggi o le vacanze o le feste o i luoghi del divertimento nella notte, se non la ricerca di un “altrove”, di un luogo dove dimenticare, dove far finta che siamo tornati come prima?

Dovremmo avere il coraggio di andare nel deserto, di custodire un po’ di silenzio. Lo strumento più efficace è il Vangelo. Sta scritto: “La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,2). “Venne”: come uno scroscio di tempesta e come un balsamo di consolazione. Questa parola non ci trasporta in un “altrove”, ma in un “oltre”: oltre le nostre paure, oltre il dolore, oltre i sensi di colpa e di impotenza. Oltre anche la morte.

Abbiamo fatto l’esperienza dell’insicurezza e della provvisorietà. Essa non deve generare l’angoscia. Piuttosto, nel momento in cui riconosciamo quanto siamo fragili, dovrebbe riattivarsi la consapevolezza di essere dei pellegrini, che non hanno qui la loro patria. Ma questa patria ci viene incontro: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo. Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica “ (Deut 30,11-14).

L’altrove è fuori di noi, l’oltre è dentro di noi.

05 dicembre 2021                                                           don Giuseppe Dossetti