“Nemo propheta in patria”, nessuno è profeta a casa sua. Anche Gesù suscita le reazioni malevole di parenti e compaesani, quando si reca a Nazaret, dove era nato.
L’occasione è data dal suo insegnamento nella sinagoga: chi pretende di essere costui, che non si limita a spiegare le Scritture, ma le interpreta, quasi fosse un nuovo Mosè? Tutto sommato, non è difficile amare il vicino, il parente, l’amico: ma questo Gesù, che fino a ieri faceva il falegname, si è montata la testa, dice che si debbono amare anche i nemici. Almeno facesse qualche miracolo; ce n’é bisogno, con i Romani in casa, le tasse di Erode e la crisi economica.
A ben vedere, la protesta dei Nazaretani va al di là di Gesù e riguarda l’idea che essi hanno di Dio. Un Dio deve avere alcune caratteristiche: anzitutto, deve dimostrare di essere superiore all’uomo, più potente, capace di arrivare oltre i limiti della sua creatura. Poi, però, deve mettere questa forza al servizio dei suoi fedeli, altrimenti, che vantaggio c’è nell’onorarlo?
Per Gesù, invece, la cosa più importante è l’”insegnamento”, proprio quello che, in fondo, agli abitanti di Nazaret non interessa. Ma, attenzione, esso non va inteso in senso morale e neppure consiste in una lezione di catechismo. L’insegnamento di Gesù è l’annuncio dell’”oggi” di Dio, cioè della sua presenza amorosa, soprattutto vicino agli oppressi, ai malati.
Di questo “oggi”, egli non è solo annunciatore, ma ministro. Per questo, sono importanti le guarigioni che egli compie. Esse non aboliscono le malattie, ma sono un segno: esse avvengono prevalentemente con l’imposizione delle mani, cioè con il contatto con il suo corpo, per indicare la prossimità fino a subire il contagio dei nostri mali, fisici e morali, anticipazione di quella prossimità radicale all’uomo, mortale e peccatore, che si compirà sulla croce.
Questa prossimità non interessa molto agli abitanti di Nazaret e rischia di interessare poco anche a
noi.
Intendiamoci: non è che Dio disprezzi le povere preghiere di chi è colpito dalla pandemia.
Certamente, egli approva e sorregge gli sforzi sinceri di chi cerca di soccorrere i suoi simili.
Nello stesso tempo, però, egli vorrebbe essere ascoltato, vorrebbe discutere con noi di quello che la malattia ci sta insegnando.
Personalmente, ho preso maggior coscienza della mia profonda fragilità e della necessità di consegnare i miei programmi e le mie aspirazioni all’unico Padrone.
Ho rivolto uno sguardo più consapevole e più grato al Crocifisso e ho forse incominciato a vedere la morte non come fallimento, ma come l’ultimo, pieno abbraccio.
Nello stesso tempo, penso che sia urgente vivere la fraternità, l’interdipendenza, la costruzione di legami con gli uomini, davvero “fratelli tutti”.
Su questo punto, devo andare oltre un sentimento egoistico, che mi porta a tutelare me stesso, che lascia volentieri ai poveri le briciole, pur di mantenere il mio stile di vita. Rischio di assomigliare ai cittadini di Nazaret, che dicono: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!” (Lc 4,23): una specie di “Nazaret first” ante litteram. Eppure, sono convinto che, come il virus non ha rispettato le frontiere, così deve fare anche la solidarietà.
Prego per chi si sforza di dare questo indirizzo alla sua azione politica o economica. Ma tocca anche a noi accettare questo “insegnamento” di Gesù, nel cercare una corretta informazione, nel formare la nostra coscienza, nel sostenere iniziative che costruiscano fraternità. Un buon proposito sarebbe quello di leggere l’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco. Non lasciamolo solo.
03 luglio 2021 don Giuseppe Dossetti