Ogni uomo ha un suo cielo. Può essere terso o nuvoloso, talvolta grigio e oppressivo come una cappa di piombo. Può orientare con la bellezza degli astri oppure essere vissuto come un limite invalicabile. Questo limite lo avvertiamo duramente oggi, nel tempo della pandemia, e genera rabbia, come se ci impedisse di raggiungere quella felicità, grande o piccola, alla quale pensiamo di avere diritto.
La Chiesa celebra oggi l’Ascensione di Gesù al cielo. Il simbolo è chiaro: la barriera tra i tempo e l’eternità viene abbattuta, l’uomo entra nella piena comunione con Dio. Tuttavia, c’è un aspetto che spesso non si considera: la storia umana continua, anche se acquista un nuovo significato, che chiamerei una provvisorietà positiva. Il virus ci ha ricordato la nostra provvisorietà, ma essa è vissuta con sofferenza, in certi casi con cinismo. Oggi, vorrei vederla con occhi diversi, come una verità seria e anche dura, ma aperta alla speranza.
Mi faccio guidare ancora una volta da quel testo straordinario che è la Lettera a Diogneto, scritta nel secondo secolo cristiano: “ I cristiani abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”. La ragione di questo paradosso è che il cristiano possiede già quello che spera, anche se nascosto e contraddetto. Ma, nello stesso tempo, ogni frammento della vita fa parte di questo cammino di ascesa, di comunione. Se l’eterno è entrato nel tempo (“Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi”), è altrettanto vero che il tempo è ormai pregno di eternità, viene trascinato dal Cristo risorto verso la patria.
Questa visione del tempo presente ha delle conseguenze pratiche, che chiamerei l’etica della provvisorietà.
Bisogna anzitutto liberarsi dalla rabbia. Tutte le volte che ci adiriamo, contro gli altri, contro Dio, contro noi stessi, il nostro cielo si chiude. La ragione è, che rinneghiamo il dominio di Dio sulla storia. Adamo oscilla tra la presunzione di chi vuol essere il Dio di se stesso e la tristezza di chi sperimenta, senza speranza, il proprio limite.
San Paolo ci esorta, invece, a comportarci “con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandoci a vicenda nell’amore” (Ef 4,2). Non si tratta di parole convenzionali: questi atteggiamenti nascono in noi quando sperimentiamo la “discesa” di Gesù nell’abisso della condizione umana. Egli “umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”, per divenire fino in fondo uomo, uno di noi, perché ognuno si sentisse raggiunto da una inflessibile volontà di comunione. “Per questo, Dio lo esaltò, al di sopra di ogni nome” (Fil 2,8s.): il nome di Gesù, invocato dal ladrone crocifisso con lui, è pegno di speranza per l’ultimo degli uomini. Proprio dalla contemplazione di questo abbassamento e dal sentirsi afferrati e inclusi in uno slancio di perdono e di grazia, nascono “umiltà e dolcezza”. Nulla è definitivo: non lo è il nostro peccato, che l’umiltà trasforma in energia di rinnovamento; non lo è il peccato degli altri uomini, perché anche ad essi è rivolta una parola di pace, che deve essere portata, appunto, “con dolcezza”.
Vivere in modo positivo la provvisorietà, vuol dire anche rinunciare ai grandi programmi e accettare le sconfitte e persino i lutti. Nello stesso tempo, acquistano sempre più importanza la carità spicciola, i gesti quotidiani di un amore che sa guardare con occhio buono il dolore e anche i difetti dei nostri compagni di viaggio. Vivere la provvisorietà vuol dire rinunciare alla vendetta, lasciare il giudizio a Dio, pregare per il nemico, come faceva il beato Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, che pregava per i mafiosi che aveva giudicato e che lo avrebbero ucciso. L’unico giudizio definitivo è quello di Dio, che ci dona il tempo per meritare di udire, alla fine di questa vita mortale, le parole consolanti di Gesù: “Venite, benedetti del Padre mio” (Mt.25,34).
16 maggio 2021 don Giuseppe Dossetti