Desidero difendere l’apostolo Tommaso dalle critiche che gli son piovute addosso nei secoli. Pretendere di vedere e toccare il Risorto sarebbe, nell’opinione comune, il segno di una fede ancora materiale, alla quale si contrappone la virtuosa accettazione della predicazione ecclesiastica da parte di coloro che credono senza aver visto. Meno male che l’apostolo si riscatti con la sua esclamazione, che accetta l’evidenza ed esprime forse anche il pentimento: “Mio Signore e mio Dio!”.
Secondo me, Tommaso non ha problemi nell’accettare la risurrezione di Gesù. Ciò che lo preoccupa è altro: egli vuole sapere che fine hanno fatto le piaghe delle mani e dei piedi, la ferita inferta al costato di Gesù dalla lancia del soldato. Quelle ferite riassumono il male del mondo, la volontà di morte che guida le azioni umane, ma anche la viltà e il tradimento, dei quali Tommaso si sente responsabile.
La risurrezione di Gesù potrebbe essere l’atto riparatorio di un Dio onnipotente: conviene stare dalla sua parte, perché Egli rimedi alle malefatte della sua creatura.
Tommaso rifiuta questa interpretazione. Il male non può essere cancellato con la bacchetta magica. Non possiamo consolare chi soffre per il coronavirus o ha visto morire una persona cara, con la promessa di
un futuro migliore, laicamente su questa terra, o in un rarefatto paradiso, nel quale tutto viene dimenticato. Allo stesso modo, come è possibile perdonare o ricevere il perdono? Noi perdoniamo, a noi stessi e agli altri, solo quello che non consideriamo veramente un peccato: ma che dire a colui che ha commesso azioni indifendibili, il cui ricordo lo schiaccia?
Per questo, quelle piaghe nel corpo di Gesù debbono rimanere. Se fossero cicatrizzate e scomparse, potremmo ammirare la potenza del Dio della vita, ma resteremmo con l’angoscia del male che ci ha toccato o che abbiamo commesso: le nostre ferite comunque rimangono.
Gesù accetta la richiesta di Tommaso. Le piaghe sono ancora aperte, ma sono divenute la porta del mondo nuovo, nel quale anche il male trova senso, riceve un misterioso utilizzo per il bene dell’uomo. Quando faremo il bilancio di questi dolorosi anni, potremo forse comprendere che ci è stata offerta la possibilità di diventare migliori. Invitando Tommaso a toccare le sue piaghe, Gesù non fa sconti sulla gravità del male, subìto o commesso dall’uomo, ma gli chiede di “non essere incredulo ma credente”. Questa
parola, “credere”, riprende qui il suo significato primo, che è di “affidarsi”: affidarsi al misterioso disegno di un Dio, che a caro prezzo entra nella storia dell’uomo, perché anche il male, la morte e il peccato diventino parte di un disegno di pace e di pienezza d’amore.
Dunque, le piaghe di Gesù non vengono cancellate dal corpo del Risorto: anch’esse “risorgono”, rovesciano il loro significato di morte in annuncio di vita. Non solo esse, però: anche le piaghe dell’uomo, se egli si affida, diventano bellezza e memoria di grazia. Nessuno l’ha espresso meglio di Dante Alighieri, quando descrive l’incontro, alla base del Purgatorio, con Manfredi d’Altavilla. Costui era morto in battaglia, dopo essere stato scomunicato; le piaghe delle sue ferite mortali rimangono, ma come segno della “bontà infinita”, che “ha sì gran braccia”.
“Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: / biondo era e bello e di gentile aspetto, / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso./ Quand’ io mi fui umilmente disdetto / d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; / e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto./ Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi … / Poscia ch’io ebbi rotta la persona/ di due punte mortali, io mi rendei,/ piangendo, a quei che volontier perdona./ Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei.” (Purgatorio, canto
III).
Io ammiro l’onestà di Tommaso e chiedo che anche a me sia concesso, fino all’ultimo, di affidarmi.
11 aprile 2021 don Giuseppe Dossetti