“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio”: così la Chiesa ripete, all’inizio dell’anno, le parole di san Paolo (ai Galati 4,4). Ben prima di Francis Fukuyama, ella annuncia “la fine della storia”, cioè il compimento delle aspettative dell’uomo, il suo “inveramento”, la possibilità di realizzare in pienezza ciò che egli è e ciò che desidera essere.
E’ facile immaginare che, dopo un anno come quello che si conclude, questa pretesa susciti parecchi dubbi. Inoltre, per aggiungere assurdo ad assurdo, il testo dell’Apostolo specifica che questo Figlio è “nato da donna”, cioè in una realtà pienamente umana, oserei dire banalmente umana. Il Natale è questo, “la banalità del bene”. Molto giustamente Lutero scrive: “Non enim tempus fecit filium mitti, sed e contra missio filii fecit tempus plenitudinis”, non fu la qualità del tempo a far sì che il Figlio venisse mandato, ma fu l’invio del Figlio a dare pienezza al tempo. Ma quel Figlio è un bimbo che nasce in una stalla e un giorno morirà sulla croce.
Lasciamoci guidare, ancora per un attimo, da san Paolo. Egli esclude ogni visione evolutiva della storia. Una traccia di questo pensiero è rimasta nel nostro modo di contare gli anni: il loro numero non ci rinvia al futuro, non indica ciò che manca, come si fa quando si aspetta con impazienza il giorno del matrimonio o, con timore, lo scoppio di una guerra. Noi, invece, siamo rinviati al passato: a differenza, però, dei messianismi politici, questo evento è stato un dono, imprevedibile e non meritato. Esso è pienezza, non soltanto nel senso che compie l’attesa dell’uomo, ma anche perché riempie di sé il tempo, lo trasforma in un “oggi”, che si dilata e diventa offerta di sé a ogni uomo.
Nel vangelo che si legge quest’oggi, vengono messi a confronto due atteggiamenti opposti, di fronte all’annuncio rumoroso dei pastori. I cittadini di Betlemme “si stupiscono”: è un modo elegante per dire che, incontrando questi uomini irsuti, maleodoranti e esagitati, hanno cercato di cambiar strada. Al contrario, “Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Cerchiamo anche noi di custodire quanto è avvenuto in questo anno, non ci sia in noi la fretta di spiegare e neppure quella di stordirci con le luminarie e i piaceri del mondo; non basteranno neppure, per dimenticare il passato, i progetti e l’impegno della volontà.
Proviamo a leggere l’anno trascorso come portatore comunque di doni, di pensieri buoni e forti che possono renderci migliori.
Prima di tutto, la pandemia ci ha ricordato la nostra fragilità, anzi, più esplicitamente, che siamo mortali. Siamo mortali, non perché c’è il virus che ci uccide, ma perché questa è la condizione dell’uomo. Il pensiero della morte richiede che diamo importanza alla vita, che ci interroghiamo e ci impegniamo in ciò che veramente ha valore: quanto tempo perdiamo per cose di pura apparenza e talvolta anche indegne! Quanti bisogni vengono indotti in noi artificialmente e come cambierebbe il mondo se ci considerassimo amministratori e custodi del Giardino, che è creatura e dono di Dio!
In secondo luogo, il contagio è stato un evento mondiale: raramente, abbiamo avuto altrettanta coscienza che “siamo su un’unica barca”. Questa verità, in passato, è stata continuamente oscurata dai nazionalismi, dalle diseguaglianze sociali, persino dalle religioni. In questi mesi, invece, essa è stata scritta nella nostra carne. Se non ci muove la solidarietà, dovremmo almeno essere coscienti dell’interdipendenza che c’è tra tutti noi. La barca è una sola ed è il mondo. Illudersi di poter gettare fuori dalla barca qualcuno, dovrebbe apparire assurdo alla politica prima ancora che alla morale. Per questo, il Papa esorta a una riforma dell’economia, a cominciare dalla gestione dei vaccini. Trascurare questo impegno, non vuol dire essere cattivi, ma stupidi.
Questo anno ci ha anche fatto toccare con mano l’importanza di avere attorno a sé una comunità. Non a caso, la sofferenza più grande è stata la solitudine, l’impossibilità di abbracciare i propri cari. Dobbiamo proprio ringraziare tutti coloro che ci sono stati vicini, quanti si sono sforzati di costruire comunque relazioni e di custodire la vita della comunità.
Se un impegno dobbiamo prendere per il futuro, è proprio quello di essere costruttori di comunità. Non sarà facile, perché saremo tentati di mettere qualche steccato, ricadendo nei nostri pregiudizi. “Fratelli tutti”, ancora una volta non è una pia formula, ma il dono che ci è offerto, per essere veramente uomini.
E’ dunque necessario custodire la memoria di quanto è accaduto. Ma la memoria apre orizzonti all’azione. Così, il nostro tempo diventa kairòs , occasione, luogo del cambiamento e della decisione. Se diventeremo più buoni, vorrà dire che la pienezza che ci è stata offerta nel Bimbo si è dilatata fino a comprendere anche il tempo, piccolo o grande, del quale siamo responsabili.
Buon Anno, miei cari. Don Giuseppe