Quattordicesima  lettera alla comunità al tempo del coronavirus

                       “Ecce panis angelorum, factus cibus viatorum”, ecco il pane degli angeli, divenuto cibo dei pellegrini. E’ un verso di una delle più belle poesie medievali, composta da san Tommaso d’Aquino per la festa del Corpus Domini, quando la Chiesa esce dalle sue cattedrali per mostrare al mondo la sua ricchezza, un pezzo di pane, aggiungendo paradosso a paradosso, poiché afferma che quel pane è il corpo di Gesù, figlio dell’uomo e Figlio di Dio!

            Quest’anno, non ci sarà la processione, per le note circostanze; tuttavia, il lungo periodo di chiusura delle Messe domenicali, la sostituzione con gli streaming che molti di noi hanno fatto, ci costringe a chiederci, perché andiamo a Messa? L’azione principale della comunità cristiana rischia di sembrare superflua, o almeno sostituibile con altro, con una bella trasmissione, con un discorso del Papa, con un concerto. Probabilmente, arrivano al pettine certe debolezze della nostra istruzione religiosa.

            Chiediamoci, per esempio, qual è la parte più importante della Messa, con quale criterio decidiamo se è stata bella o no, noiosa o no, utile o no. Sono convinto che la maggioranza risponderebbe: l’omelia! Anche noi preti, quando pensiamo a preparare la Messa, in realtà pensiamo a preparare l’omelia. Così, spesso la Messa diventa molto simile a una lezione e la Comunione al Corpo di Cristo non la sentiamo poi così necessaria.

            Ma allora, la Messa a cosa serve? Ce lo dice la prima lettura di questa domenica. Gli ebrei sono ormai arrivati alla terra promessa e Mosè gli ricorda il viaggio, così duro e così straordinariamente assistito: “Il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile, ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima e nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri”. In effetti, la storia umana assomiglia a questo “deserto grande e spaventoso”, soprattutto in momenti come questo. Abbiamo bisogno di consolazione; per gli Ebrei lo è stata la manna, quel “pane disceso dal cielo”, con il quale Gesù si identifica. La Messa ci consola, perché ci ricorda, giorno dopo giorno, che siamo amati: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, la mia vita, per te.

            Ma nella Messa accade anche qualcosa d’altro. La Chiesa chiede efficacemente il dono dello Spirito Santo. Come gli apostoli sul monte della Trasfigurazione, veniamo anche noi illuminati dalla luce divina, che a poco a poco ci trasforma. Incominciamo a vedere le cose del mondo in modo diverso. Nasce in noi un senso di libertà: ci accorgiamo della vanità degli idoli del mondo, veniamo liberati dalla paura. Impariamo a leggere la storia con gli occhi di Dio, pian piano comprendiamo qualcosa della Sua guida sapiente. Così, diventiamo meno arrabbiati, più disposti alla mitezza; ci accorgiamo meglio delle sofferenze, delle gioie, delle aspirazioni degli altri; alla compassione per il dolore degli uomini si aggiunge la ferma speranza che nessuna lacrima sarà dimenticata.

            Non è un ostacolo la ripetizione dei riti. Quando si ama, non si prova fastidio, anzi, si desidera che l’amato ripeta le parole dell’amore. Siamo viandanti, ma portiamo dentro di noi la meta. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. E’ in quel “rimanere” che noi troviamo il riposo.

 

14 giugno 2020                                                                 don Giuseppe Dossetti

 

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